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Lavoro

È un lavoro sporco, ma noi lo facciamo

C’è un modo per rendere meno traumatico il licenziamento a chi lo subisce? Forse. Ma se può farvi sentire meglio, spesso chi viene sbattuto fuori da un’azienda se l’è proprio cercata. O perlomeno ha fatto finta di non accorgersi che nell’aria c’era sentore di cambiamento… I direttori delle risorse umane parlano di uno dei loro compiti più sgradevoli

Ristrutturare, ottimizzare, razionalizzare. In una parola: licenziare. Fa parte del lavoro di chi organizza il lavoro degli altri. Non è un mestiere facile, però è necessario. «Noi siamo i gestori della sopravvivenza delle aziende, nostro malgrado», sintetizza con una formula efficace Paolo Citterio, presidente dell’associazione dei direttori delle risorse umane (Gidp/Hrda), con una lunga esperienza negli uffici del personale di grandi aziende. «Il momento più difficile, per entrambi, è quando si deve spiegare a un collaboratore che non si ha più bisogno di lui: la reazione è sempre fortemente emotiva, spesso ho visto piangere. Per questo serve molta umanità ma anche determinazione, mai troppa fretta e sempre grande disponibilità per offrire un percorso di aiuto». Anche perché ogni licenziamento, in definitiva, è il sintomo di una sconfitta sia per il lavoratore che lo subisce sia per l’impresa che si trova nella condizione di doverlo fare. «Salvo rari casi di colpa individuale grave, il licenziamento è frutto di una storia che non ha sortito gli effetti desiderati da entrambe le parti, in termini di performance, motivazione e prospettive», dice Paolo Iacci, presidente di Bcc Credito Consumo e vicepresidente nazionale dell’associazione italiana direttori del personale (Aidp). «La prima cosa da fare è salvaguardare la dignità individuale della persona, la sua condizione economica e sociale e le prospettive di futura ricollocazione. Per quanto possibile», continua Iacci, «occorre trovare un accordo che metta insieme gli obiettivi aziendali con i bisogni individuali. Come? Con pazienza, determinazione, e buona volontà da tutte e due le parti del tavolo, perchè si tratta di una mediazione non sempre facile». Parlare di regole per addolcire la pillola sarebbe davvero cinico, soprattutto di questi tempi, ma è vero che ci sono modi e modi. La chiusura ideale dovrebbe essere trasparente e veloce, equa e dignitosa, in modo da minimizzare l’impatto e creare le condizioni per facilitare un futuro reimpiego. Ma soprattutto, e questo è il grande paradosso, la fine può essere più o meno dolorosa a seconda di come tutto è cominciato. Insomma, il bravo licenziatore prepara il manager ad affrontare l’esonero fin dal primo momento, quando ancora deve assumerlo. Crudele? Niente affatto. È solo questione di onestà.

PAGATI PER TAGLIARE:GLI HEAD CHOPPER

«Questo è il tuo ultimo giorno di lavoro, da domani stai a casa». Sangue freddo, nessuna pietà. Sono i tagliatori di teste americani, gli head chopper chiamati dalle aziende per fare lo sporco mestiere del licenziatore. Chi ha visto George Clooney in Tra le nuvole sa di cosa stiamo parlando: l’head chopper è un professionista chiamato dalle aziende in crisi per ridurre il personale. Lui esegue, senza troppi rimorsi, e di questi tempi il lavoro non gli manca mai. In Italia i tagliatori di teste si vedono solo nelle filiali delle multinazionali, anche se è vero che molte pmi in difficoltà ricorrono spesso a consulenti esterni per gestire in maniera professionale gli esuberi, mettendo in mano la gestione del personale a chi lo sa fare per mestiere.

«Licenziare un manager per giustificato motivo oggettivo è facile o difficile nella misura in cui si è stati chiari con lui fin dall’inizio, definendo gli obiettivi in maniera puntuale, spiegando cosa ci si aspetta e cosa invece verrà considerato indice del fallimento», racconta Maurizio Berrutti, Hr Director di Irap, multinazionale italiana nel settore delle apparecchiature frigorifere commerciali, 700 dipendenti in Italia, altri 300 nel resto del mondo. Dialogo, apertura, chiarezza: queste sembrano essere le parole d’ordine che stanno alla base di un buon rapporto fra datore di lavoro e dipendente. Comunque vada a finire. Perché il rischio, altrimenti, è quello di una doccia fredda. E capita più spesso di quanto ci si possa immaginare. «Molti manager non si accorgono della fine imminente, neppure davanti all’evidenza», dice Marco Crippa, a capo delle risorse umane di TrueStar Group, l’azienda di Gallarate (Varese) leader, con il 40% del mercato, nell’avvolgimento bagagli in aeroporto. «Perché si credono indispensabili e insostituibili quando tutto, attorno a loro, sta cambiando. Un esempio? C’è il responsabile dei servizi generali che, pur conoscendo i piani dell’azienda di dare in appalto esterno tutto il lavoro, continua a pensare di non essere toccato dalla riorganizzazione. Oppure», continua Crippa, «il responsabile dei servizi di vigilanza che assiste al trasloco dell’azienda senza rendersi conto che la sicurezza verrà data in mano a un’altra agenzia, più vicina alla nuova sede». In entrambi i casi, è come se non si volesse vedere ciò che sta capitando davanti agli occhi. Ed è un errore di valutazione molto comune fra i colletti bianchi. Forse entra in gioco la speranza, ultima a morire, oppure una punta di scaramanzia: no, non tocca a me, non è ancora arrivato il mio turno. E invece sì. Come si fa in questi casi? «Uno o due incontri preliminari per far luce sull’evidenza», conclude Crippa, «prima di dare l’annuncio».

IN GIAPPONE C’È IL MANUALE

In una stanza piccola intorno a un tavolo, trenta minuti al massimo, poco spazio ai sentimentalismi, guai a pronunciare la parola “licenziato”. Così lo fanno i giapponesi: rapido e indolore. Sono le regole contenute in un manuale del perfetto licenziamento, 30 pagine scritte da professionisti del settore e distribuite alle maggiori corporations, con tutti i consigli utili per annunciare la cattiva notizia. Obiettivo: tutto deve risultare asettico e veloce. Mezz’ora al massimo, meglio se il direttore del personale è accompagnato da altre figure (sette sarebbe il numero perfetto), niente convenevoli, tè o caffé sul tavolo, bando alle (inutili) spiegazioni su come l’azienda sia in difficoltà – sarebbe un doppio errore, si legge sul manuale – e mai lasciarsi andare a patetici incoraggiamenti su come sarà facile trovare un nuovo posto. Solo la dura e cruda verità. E sayonara.

Proprio un mestiere difficile. Ma a chi spetta davvero l’ingrato compito? «In una situazione normale è il capo diretto, che potrebbe essere il Ceo in persona, in genere alla presenza del direttore delle risorse umane, che deve dare la notizia», sostiene Francesco Picconi, cresciuto in General Electric, Fiat, Indesit, ora Group Head of Hr in Falck Renewables. «Dopodiché la patata bollente passa alla direzione risorse umane, dove cerchiamo di gestire l’impatto emotivo e, quindi, di riportare il tutto nei binari di una trattativa razionale». Sia chiaro, il salvacondotto per la pensione non ce l’ha nessuno, neppure il capo del personale, che risponde al Ceo. E neppure questo, che deve rendere conto ai clienti. Per dirla con Sam Walton, il fondatore di Wal-Mart, è il cliente che può licenziare tutti nell’azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un’altra parte.

Ecco alcune tragicomiche reazioni al licenziamento

Le ha raccolte Mario Bianco, headhunter e autore,con lo pseudonimo di Enza Consul, di La mia azienda sta stirando le cuoia (Sperling e Kupfer, 1992)

«Mi hanno cacciato perché non ero più disposto a fare il secondino a nessuno»«Sono stato il capio spiatorio» «Mi hanno accusato di non avere affatto vent’anni di esperienza ma un anno soltanto, però ripetuto venti volte» «Qui sono favorevoli all’eutanasia…» «Mi ritenevo un uomo chiave dell’azienda, ma ora si è rotta la serratura» «Se ho sbagliato mossa, non ho capito perché me ne devo andare» «Colpa del mio capo,era troppo caviglioso» «Mi hanno licenziato sul tronco»