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Gusto

Octavin: improvvisazione stellata per lo chef Luca Fracassi

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Luca Fracassi con Lucia Cianchi

L’ottavina è una delle forme di componimento poetico che invita all’improvvisazione, ma anche lo strumento a fiato più acuto dell’odierna orchestra sinfonica, utilizzato per ottenere particolari effetti timbrici. Effetti che riescono benissimo a Luca Fracassi, tornato nella sua Arezzo dopo importanti esperienze in Italia e in Spagna per ottenere una stella Michelin.

Nella sua cucina l’impronta aretina è fondamentale…
Il territorio è il punto di partenza di ogni menu. Però è un territorio letto in modo personale, fatto di profumi e sapori che mi ricordano un luogo, un evento… Questo richiede un minimo di sforzo da parte del cliente, per interpretare pensieri che non sempre sono immediati.

Preferisce che il ristorante venga associato, nel nome, alla forma metrica dell’ottavina o allo strumento musicale più acuto dell’orchestra?
Dal primo giorno l’obiettivo è sempre stato esplorare quello che non conoscevamo. Alzare l’asticella è sempre stato un imperativo, senza però avere mai ben chiaro quale sarebbe stato il traguardo, proprio perché andavamo a toccare argomenti nuovi. Per questo “l’improvvisazione”, come nell’ottavina è più che mai la nostra caratteristica principale.

Come mettete in pratica il concetto di sostenibilità?
Il tema è attuale e ognuno di noi deve fare il possibile per evitare di impattare il meno possibile sull’ambiente, ma siamo arrivati alla modesta conclusione che, per andare avanti senza raccontarsi frottole, bisogna trovare un giusto compromesso. Noi cerchiamo nel massimo delle nostre possibilità di limitare gli sprechi, di acquistare bene, di pensare il ristorante come una macchina che deve inquinare il meno possibile. Però se dobbiamo dare una “sgasata”, non ci facciamo più problemi come prima.

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Il “pomodoro” di Luca Fracassi e il sommelier Alessandro Gelli nella sala dell’Octavin

Formazione e personale, quali sono le sue esperienze in merito alla carenza di “vocazioni” per la ristorazione?
Quando ero piccolo e dicevo di voler fare il cuoco me lo sconsigliavano, eppure sono arrivato a 37 anni senza cambiare idea. È un lavoro stupendo che dà tante soddisfazioni, ciò non toglie che sia molto duro e sempre meno retribuito. Purtroppo, negli ultimi anni questo mestiere è stato fatto passare per cool e questo ha portato alla situazione attuale, con gente che si scoraggia in fretta e parla di questo lavoro in termini negativi. Io non amo le brigate grandi, però mi guardo sempre intorno e, nel caso si presentasse la persona giusta, è la benvenuta. Da dicembre, ad esempio, in cucina a me si è unito Marco, che ha 20 anni, è di Arezzo ed è fortemente motivato.

Quali attenzioni usate in sala per rendere ancora più memorabile l’esperienza dei vostri clienti?
Così come nella cucina, anche in sala c’è stata una costante evoluzione. Ad Alessandro (Gelli, sommelier, ndr) e Sofia (Cianchi, ndr) ho sempre chiesto di non omologarsi, di non snaturarsi per migliorare solo apparentemente il servizio. Siamo ciò che siamo e lo dobbiamo far arrivare ai clienti. Può sembrare facile, ma unito al ritmo del servizio, alle diverse tipologie di clienti, agli imprevisti, di fatto è una bella sfida.

La carta dei vini è improntata ai naturali e alla ricerca di nuovi sapori, come si armonizza con i suoi piatti?
Questa è stata la scommessa più grande, anche se non totalmente vinta. Per chi viene sapendo qual è la nostra offerta siamo diventati un punto di riferimento, altrimenti è un versante ostico. Per fortuna Alessandro riesce quasi sempre a trovare soluzioni dove apparentemente non ce ne sono. Due abbinamenti incredibili con piatti dell’attuale menù sono gli Zolfini, polline e dragoncello con il riesling senza solfiti di Trossen Kestenbusch dalla Mosel (Germania) e l’Agnello, aglio dolce e olivello spinoso con il sangiovese naturale del progetto Do.t.e. Joe-San Rosso da Cortona.