Se il bonus non è un malus

L’Ocse ha inserito tra i suoi principi etici la valorizzazione delle retribuzioni. Manageritalia ha sposato l’iniziativa, esortando ad associare ai premi di produzione sistemi che misurino il reale operato dei dirigenti. A partire dalle Pmi

Sapete quale genere di notizia, più di ogni altra, fa di questi tempi montare su tutte le furie l’opinione pubblica americana? L’assegnazione di bonus milionari ai top manager delle grandi compagnie. E quanto più le società in questione sono sull’orlo del fallimento tanto più aumenta la rabbia. Il modo in cui le multinazionali continuano sfacciatamente a premiare i propri dirigenti anche nel clima di austerity generato dalla crisi accende dibattiti che infrangono gli argini dell’ambito economico e sfociano nel tortuoso terreno dell’etica, quando non addirittura in quello della giustizia sociale. In fondo, così dice il senso comune, tra le prime cause della recessione internazionale c’è stata la passione spregiudicata per la speculazione finanziaria dei banchieri e dei top manager delle grandi holding a stelle e strisce. Perché insistere nell’elargire a persone che andrebbero forse interdette dai piani alti di queste società bonus che spesso superano i loro stipendi base?

Negli Usa come in Italia

Non si placa per esempio quello che ormai sulle pagine dei giornali campeggia come lo “scandalo Aig”, dove Aig sta per American International Group, e per scandalo si intendono i 165 milioni di dollari in bonus che il gruppo ha dichiarato di essere costretto per contratto a concedere ai propri dirigenti per l’attività 2008. Bonus da finanziare, e qui sta il punto dolente, con i soldi dei contribuenti. Infatti a causa della crisi che lo stesso Aig ha contribuito a innescare in quel 2008 “da premiare”, il colosso delle assicurazioni ha rischiato la bancarotta, e si è salvato solo grazie all’intervento del governo di Barack Obama, che ha stanziato 170 miliardi di dollari. Ora, forse per evitare il linciaggio mediatico, i colletti bianchi di Aig stanno rinegoziando quanto sarebbe loro dovuto: tanto per cominciare i sette principali manager hanno deciso di rinunciare ai benefit per l’anno 2009, mentre il pagamento dei premi di produzione per il 2008 è stato suddiviso in tre tranche per altri 50 top manager. I quali, tuttavia, sempre per placare le polemiche, pare abbiano deciso di restituire una cinquantina dei milioni di dollari che si sono intascati. Un bel caos. Ma la situazione non è così diversa nel Belpaese. Solo per citare il caso dei dirigenti pubblici, secondo una ricerca dello Sda Bocconi nella P.A. ben nove manager su dieci riceverebbero la massima valutazione in sede di assegnazione del bonus annuale. «Fa parte della vecchia cultura del ‘todos caballeros’, del ‘tutti premiati’, ma se tutti sono premiati nessuno è premiato», così ha commentato i risultati dell’indagine Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica, naturalmente promettendo un giro di vite anche su questa stortura. Dobbiamo dedurre che i bonus sono sempre necessariamente un malus? E se invece, da pietra dello scandalo, diventassero, anche in Italia, un sistema efficace per misurare i risultati aziendali? Basterebbe smetterla di chiamarli bonus e dare loro la definizione di retribuzioni variabili, avendo cura, soprattutto, di collegarli a programmi di misurazione oggettiva delle performance dei dirigenti. I premi di produzione in questo modo, oltre a essere un incentivo a lavorare di più e meglio, diverrebbero un utile strumento di controllo degli standard qualitativi dell’impresa. Il margine di miglioramento c’è: lo dice chiaramente il II rapporto dell’Osservatorio manageriale, realizzato da Manageritalia in collaborazione con OD&M Consulting (società di ricerca specializzata in indagini contributive) e condotto su 369 aziende tricolore. Nel report è stato affrontato il tema dei “Manager visti dall’azienda” e, al di là delle questioni legate all’analisi generale della vita d’impresa e ai criteri di scelta dei dirigenti, ciò che emerge è la scarsissima cultura della misurazione dei risultati nel tessuto imprenditoriale italiano. Le aziende generalmente non creano un collegamento diretto tra la retribuzione variabile e il sistema di valutazione delle competenze e dei comportamenti, e l’attenzione a questo rapporto è, a sorpresa, inversamente proporzionale alle dimensioni dell’impresa. Più precisamente, il collegamento tra valutazione delle competenze e premio economico dei manager è previsto nel 24% delle grandi aziende, nel 27% delle medie e nel 35% delle piccole. Un paradosso, se si considera che invece la stragrande maggioranza delle società coinvolte nel sondaggio ricorre al sistema delle retribuzioni variabili come leva di retention sui dipendenti, principalmente sotto forma di sistema incentivante collegato a obiettivi individuali o aziendali.

Bonus? No, retribuzione variabile

Non è un tema di poco conto, visto che la valorizzazione delle retribuzioni è al centro anche delle 12 tavole con cui l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha presentato allo scorso G8 dell’Aquila i principi etici per un’economia sostenibile. Al decalogo dell’Ocse ha aderito la comunità dei manager italiani, rilanciando idee e iniziative perché i progetti diventino fatti. Arnaldo Camuffo, che oltre a essere professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi lavora anche in alcuni comitati di remunerazione (in Autogrill e in Carraro) dice senza mezzi termini che «c’è bisogno di misurare e oggettivare di più le performance dei manager e soprattutto dei top manager. Gli stipendi degli amministratori delegati delle prime 44 aziende quotate alla borsa di Milano sono cresciuti negli ultimi tre anni senza il ben che minimo collegamento con i risultati ottenuti dalle loro società. Dobbiamo dare alle Pmi e all’economia italiana conoscenze e strumenti utili a collegare le retribuzione ai risultati, l’unico vero modo per far crescere tutto il sistema e per andare verso il riconoscimento del merito e l’aumento della produttività».Nella piccola azienda, sempre secondo il rapporto di Manageritalia, la retribuzione variabile attraverso bonus discrezionale è un incentivo utilizzato 29 volte su 100. «In Italia soprattutto le aziende familiari e quelle che operano solo in mercati nazionali protetti adottano un modello più basato sulla fedeltà: i manager sono assunti sulla base di contatti personali o familiari, la loro performance non è valutata in modo formale e la retribuzione avviene soprattutto in funzione della qualità del rapporto con la proprietà», spiega Claudio Pasini, presidente di Manageritalia. «Reclutare, valutare e ricompensare gli alti livelli professionali, quali sono i manager, non è un compito facile. Presuppone una cultura aziendale basata sulla pianificazione a lungo termine e sullo sviluppo del capitale umano. E pare proprio di capire che questo know-how sia molto più scarso nelle aziende familiari e in quelle non esposte alla concorrenza. Dobbiamo fare di tutto per favorire produttività e merito introducendo oggettivi sistemi di valutazione delle performance, premiando risultati e merito e incentivando così un reale scatto della nostra economia e società verso una competitività e uno sviluppo duraturi e sostenibili. Questo sistema – che già esiste, ma richiede dei miglioramenti per i dirigenti e i quadri – deve estendersi sempre più anche tutti gli altri lavoratori e essere incentivato con una forte defiscalizzazione».Sì dunque ai premi di produzione, purché siano inseriti in una visione strategica dello sviluppo del business. Lodovico Floriani, vicedirettore generale con la responsabilità di risorse umane, organizzazione comunicazione e It del gruppo Generali assicurazioni precisa il suo punto di vista: «Non parlerei di bonus ma piuttosto di retribuzione variabile che deve essere collegata a obiettivi aziendali e individuali di breve, ma soprattutto di medio-lungo periodo. Ci vogliono obiettivi prefissati e validi sistemi di valutazione e oggettivazione dell’apporto del management. Nel gruppo Generali tra gli obiettivi premianti c’è anche quello della crescita dei collaboratori». Tanto è vero che anche la crisi internazionale non può essere ridotta a un cumulo di errori dei soli colletti bianchi. Secondo Floriani, infatti «la demagogica attribuzione di tutte le colpe ai top manager e alle loro retribuzioni può in realtà riguardare solo pochissimi casi, e per lo più nel mondo anglosassone».Sull’efficacia del potenziamento della retribuzione variabile nel sistema delle piccole imprese italiane ritorna Francesco Taranto, consigliere e membro del comitato delle remunerazioni di Eni. «Dobbiamo migliorare in termini di definizione degli obiettivi e dei sistemi di valutazione e incentivazione. Non c’è allineamento tra sistema di incentivazione, strategie e obiettivi. La retribuzione variabile potrebbe essere utilizzata dalle Pmi per attrarre manager validi e da retribuire soprattutto sui risultati collegando a questi la parte variabile. Questo», chiosa Taranto, «comporta un bel salto culturale da parte delle Pmi».

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