Ginnastica per la mente: intervista al mental coach Riccardo Ceccarelli

È possibile allenare l’intelletto affinché renda al massimo con il minimo sforzo anche in situazioni di forte stress? Sì, secondo colui che ha elaborato il MET, un training specifico utile per i campioni dello sport, come Jannik Sinner, che funziona anche per i manager

Riccardo-CeccarelliMedico sportivo e mental coach, Riccardo Ceccarelli ha messo a punto il Mental Economy Training (MET) per piloti di Formula 1 e Motogp, poi applicato in altri ambiti

Rialzare lo sguardo, raddrizzare le spalle e reagire: nella dinamica dell’eroe è la scena clou che cambia il finale. Da Rocky a Il gladiatore, è la capacità di ribaltare a sorpresa un risultato che sembrava ormai scontato che scatena l’entusiasmo e le endorfine, nello sport è ciò che ispira i cori, riempie gli stadi, fa saltare perfino dal divano più accogliente. Tuttavia, per tirare una volée vincente, o effettuare un sorpasso al limite del lecito, il talento è condizione necessaria ma non sufficiente. Nelle situazioni di stress entrano in gioco altri fattori. Gli stessi che intervengono durante la proposta di un progetto al board di un’azienda, o alla presentazione dei risultati annuali di fronte alla platea degli investitori. La buona notizia è che esiste oggi un allenamento nato per potenziare le performance sportive, che si sta già utilizzando per ottimizzare le capacità manageriali ai più alti livelli. Si tratta del Mental Economy Training (MET) una ginnastica mentale messa a punto, in trent’anni di attività nel settore della Formula 1 e del tennis, dal dottor Riccardo Ceccarelli, medico sportivo e mental coach dietro le quinte delle recenti performance di Jannik Sinner, nonché parte del team di preparatori dell’astronauta Walter Villadei, reduce da una missione sulla stazione spaziale internazionale. Il metodo MET è stato infatti adottato da Price Waterhouse Cooper per i propri manager in una vera e propria Mental Gym aperta due anni fa a Milano.

Dottor Ceccarelli, in cosa consiste il suo metodo e in che modo può essere usato in ambito HR?
Negli anni Ottanta, quando ho iniziato a lavorare nel settore della Formula 1, stava tramontando il mito del genio e sregolatezza che aveva accompagnato i campioni sportivi fino ad allora. Al di là del talento, i piloti andavano allenati, ma i parametri oggettivi di riferimento da cui partire dovevano essere stabiliti in modo scientifico. Abbiamo fondato la società Formula Medicine e iniziato a misurare i dati corporei attraverso elettrodi, per capire dove si nascondesse l’eccellenza, quel quid che – a parità di capacità – faceva vincere le corse. E abbiamo scoperto che non era nei riflessi, o nella prestanza fisica. La differenza era nell’utilizzo delle risorse cerebrali. I grandi campioni sono capaci di ottimizzarle per aumentare la performance. Con l’utilizzo di risonanze magnetiche funzionali, si è visto che normali studenti a confronto dei nostri piloti nei test ottenevano risultati simili, ma l’attivazione del cervello risultava molto inferiore nel cervello del pilota. Era come avere davanti due motori che andavano alla stessa velocità, dove uno consumava quattro volte più benzina. Nel processo decisionale, che in questi casi richiede tempi rapidissimi, i nostri piloti avevano la corteccia prefrontale – dove vengono elaborati i dati in tempo reale – attivata a rilento, più si estraniavano dalla competizione e meglio performavano.

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Uno scatto della Mental Economy Gym, la prima palestra interamente dedicata agli allenamenti mentali

Come si traducono queste conoscenze in un training manageriale?
Partendo dal presupposto che sono i pensieri superflui del prefrontale a rovinare la performance, mi piace immaginare ciascuno di noi come uno chef che ha a disposizione un insieme di ingredienti; è come vengono cucinati a fare la differenza. È possibile affinare questa capacità attraverso esercizi che vanno a potenziare specifiche abilità. Tutto parte dalla consapevolezza del soggetto, è difficile lavorare con una persona che ha sempre cercato vie di fuga o scorciatoie di fronte ai problemi, magari spostando al di fuori la responsabilità dei propri fallimenti. Anche nello sport c’è l’atleta bravissimo che non si impegna, e quello bravo che però lavorando su sé stesso raggiunge risultati addirittura migliori. Le sfide manageriali sono simili. Solo che in questo caso il problema è ancora di matrice culturale. Finora, delle semplici tecniche sono state scambiate per allenamenti: praticare yoga, mindfulness e simili è sicuramente utile ma non allena, perché manca totalmente la condizione di stress. Che succede quando ci troviamo di fronte a una platea che giudicherà la nostra carriera in base ai successivi 15 minuti di speech? Utilizzare al meglio le proprie risorse mentali nel momento in cui serve non è così facile. Tra i nostri test c’è una competizione alla meditazione, una gara automobilistica pensata per portare il giocatore fuori dalla sua comfort zone: misuriamo l’attività encefalica e il battito cardiaco, e chi riesce ad andare in meditazione, a distaccarsi dalla gara, inevitabilmente ha i migliori risultati.

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Dietro le quinte delle recenti performance di Jannik Sinner c’è anche il lavoro del mental coach Riccardo Ceccarelli (foto © Getty Images)

Con quali parametri si può valutare un simile allenamento riferito alla leadership e al management, al di fuori di un campo di gioco, quando non c’è una vera gara?
La persona che si rivolge ai nostri centri viene in primo luogo profilata sulla base di prove che misurano skill come la meditazione e la pulizia mentale, la dual task, la capacità decisionale, sulla base di cinque macroaree che abbiamo individuato. Innanzitutto, l’engagement, cioè la motivazione a lavorare su sé stessi e a impegnarsi, poi ai due estremi di un ipotetico pentagono poniamo la capacità analitica e la gestione dell’emotività. Alla base troviamo l’autoconsapevolezza e la flessibilità. Quest’ultima area è particolarmente importante in ambito aziendale, perché la difficoltà ad abbandonare i propri schemi impatta pesantemente in occasione di cambi di strategia. Il nostro percorso ha tre fasi, consapevolezza, flessibilità e self confidence. Immaginiamolo come una montagna che inizia con una parete rocciosa verticale, perché la conoscenza onesta di noi stessi è la parte più difficile. Quando si arriva in cima la pendenza diminuisce e il terreno è cosparso di arbusti cui ci si può aggrappare: sono gli strumenti con cui gestire le proprie aree problematiche, emerse durante la fase di autoconoscenza. L’ultima parte della montagna è ricoperta da fitti boschi: per non perdere la strada bisogna imparare a usare gli strumenti acquisiti. La cima della montagna è l’efficienza neurale, cioè la capacità di massima resa con il minimo sforzo anche in situazioni di forte stress. È come installare un “consumometro” virtuale: per chi lavora con il cervello la gestione della performance è legata a quella del consumo energetico, oggi attraverso la tecnologia è possibile misurarla, analizzare i dati, capire se si sono sprecate risorse e dove, e mettere a punto delle tecniche personalizzate.

Con le tecnologie emergenti ci saranno ulteriori sviluppi? L’Intelligenza Artificiale può avere un ruolo nel suo metodo?
Attualmente abbiamo tre hub dove le persone vengono ad allenarsi, uno a Viareggio presso la nostra sede, uno a Milano dedicato al corporate e uno Bordighera dove si trova l’Accademia di Riccardo Piatti (Piatti Tennis Center – ndr), ma la continuità in un allenamento è un requisito fondamentale. Stiamo sviluppando degli home kit costituiti da un computer, rilevatori di parametri corporei e da una piattaforma virtuale, che dovrebbero entrare in commercio prima dell’estate. L’AI consente di interagire con la piattaforma in modo diretto, attraverso domande e risposte, e in futuro attraverso veri e propri virtual coach in grado di tarare di volta in volta le necessità dell’atleta mentale e i relativi esercizi.


Intervista pubblicata su Business People di maggio 2024, scarica il numero o abbonati qui

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