Le testimonianze

Giuseppe Oliva, direttore generale di Mindshare

L’uso di termini inglesi in una discussione in italiano è una conseguenza di vari fattori. Un po’ siamo drogati dal fatto di lavorare in multinazionali non di origine italiana, un po’ è una naturale inglesizzazione del mestiere del marketing che non nasce in Italia, si è originato all’altro capo del mondo ed è arrivato fino a noi. In più la lingua anglofona ha il dono della sinteticità. Gli inglesi utilizzano concetti essenziali, concreti e forme verbali semplici. Al contrario, gli italiani costruiscono le frasi in modo sofisticato e articolato, sono prolissi, amano infiocchettare la discussione e far riflettere gli interlocutori. Noi, però, siamo molto più capaci di cogliere sfumature e atteggiamenti, anche non verbali. Il risultato è che se facessimo partecipare alle nostre riunioni persone di altri mondi ci renderemmo conto che non si capisce nulla. Una massima fondamentale della comunicazione è essere comprensibili ai target ai quali parliamo, alle persone con le quali vogliamo entrare in contatto e alle quali vendiamo i prodotti della aziende che rappresentiamo, però poi i primi a parlare in linguaggi incomprensibili siamo noi. Un’altra stortura del nostro mondo è che sono sempre gli italiani a doversi adattare agli inglesi e mai il viceversa. Ci capita che un solo manager anglofono sia presente alle nostre riunioni e automaticamente teniamo tutta la discussione in inglese. Noi ci sforziamo, sosteniamo il costo e l’impegno dei corsi di formazione, modifichiamo la struttura del team in funzione del fatto che il cliente abbia bisogno o meno di fare presentazioni in inglese, ma dove sta scritto che siamo sempre noi a dover essere flessibili?

Nicola Maccanico, deputy managing director di Warner Bros. Pictures Italia

Credo che si possa lavorare in una multinazionale parlando italiano. A mio parere ci sono due gradi di degenerazione, uno gestibile e uno non gestibile. Il primo è l’uso degli inglesismi che avviene per abitudine e che, pur rendendo il linguaggio ridondante, permette di semplificare la conversazione, renderla più immediata e diretta. Il secondo, quello che dovrebbe essere vietato, è l’italianizzazione di vocaboli inglese, come brieffare dall’inglese to brief. È un abuso dilagante, ma mi auguro che sia una moda e passi presto. Altrimenti corriamo il rischio che la nostra lingua si impoverisca. Dobbiamo puntare a parlare solo in italiano quando la discussione è in italiano e in inglese quando si parla inglese. La vera sfida dei manager è riuscire a fare il proprio lavoro in italiano, fermo restando che devono avere la capacità e la proprietà di linguaggio per lavorare in inglese. Il vero antidoto è fare capire alle persone che si riempiono la bocca di inglesismi che in fondo se ne può fare a meno. Quando ci si trova davanti un interlocutore contagiato dall’abuso degli inglesismi, è bene farglielo notare ma in modo ironico. Tuttavia, non è l’unica degenerazione. Un altro virus altrettanto preoccupante è la tendenza all’uso spasmodico degli acronimi. Tanto che spesso si finisce quasi per avere una maggioranza di acronimi rispetto alle parole compiute e quindi sviluppare discorsi scritti e orali incomprensibili.

Stefano Cau, amministratore delegato di Groupe Seb Italia

Anche se siamo parte di una multinazionale francese, ci rapportiamo a livello internazionale in inglese, che storpiamo e italianizziamo in ogni modo. Spesso senza rendercene conto. Se in passato infatti italianizzare l’inglese era un po’ una moda, oggi è una consuetudine da parte di chi lo usa per lavoro. Questo accade perché tanti termini sono molto più diretti in inglese che non in italiano, per esempio brieffare rende molto di più della parafrasi italiana. Certo, ci sono numerose persone che usano gli inglesismi per riempirsi la bocca ma lo si evince subito perché i termini sono usati a sproposito o non calati nel contesto corretto. Sicuramente ci sono settori che esagerano questa tendenza, come i mondi della consulenza e della finanza. In particolare i consulenti spesso italianizzano parole poco immediate come levereggiare, ovvero fare leverage con il significato di fare leva su qualcosa per ottenere determinati risultati. Il rischio però è che per capirsi sia necessaria una vera e propria decodifica. Anche la finanza è molto anglosassone perché vi lavorano molte persone che hanno fatto esperienze all’estero, hanno seguito master o corsi di studio in inglese, e quindi questa lingua è un po’ nel loro Dna.In generale, dobbiamo essere naturali, usare la lingua che i nostri interlocutori capiscono meglio e va da sé che l’inglese storpiato non si capisce. A maggior ragione se l’interlocutore che si ha di fronte non lo conosce e si corre il rischio di metterlo a disagio. Il tal caso lo scopo, che è quello di comunicare, fallisce completamente.

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