Gli esperti della carriera

È meglio prediligere un percorso di formazione del manager di tipo interno all’azienda o acquisire i talenti disponibili sul mercato? Secondo gli head hunter non si può generalizzare. I fattori che entrano in gioco nella scelta del management sono molteplici, a partire dalle dimensioni dell’impresa – la formazione richiede, infatti, investimenti significativi – proseguendo con le strategie di sviluppo dell’azienda e il contesto economico nella quale questa opera. «Da un lato ci sono le grandi aziende, spesso multinazionali» spiega Luigi Mancioppi, managing director di D&G The Amrop Hever Group in Italia «che creano vere e proprie corporate university, percorsi formativi per tutti i manager e i professional che abbiano un certo tipo di potenziale per i quali si alternano momenti di formazione veri e propri a esperienze sul campo. Questo comporta grandi investimenti, giustificati anche dall’elevato ritorno d’immagine. Dall’altro lato si trovano le piccole e medie imprese che difficilmente hanno i soldi, le strutture e gli organici necessari e quindi si rivolgono al mercato esterno. Qualche anno fa avevo come cliente un’impresa di medie dimensioni, italiana e attiva nel comparto tecnologico, che dedicava parecchie risorse a ricerca e sviluppo e molto serenamente dichiarava che la loro dimensione non era compatibile con la formazione interna. Di conseguenza comprava sia la formazione sia il management. Magari anche pagando le persone di più e sapendo che magari dopo due o tre anni si sarebbero stancate di lavorare per una struttura relativamente piccola. Nel frattempo però l’azienda avrebbe beneficiato delle competenze portate da questo manager». Scegliere un manager interno all’impresa permette di valorizzare i dipendenti e al tempo stesso offre maggiori garanzie in merito al rispetto delle linee guida aziendali. Tuttavia non sempre è possibile. In tal caso non si può far altro che rivolgersi all’esterno, il che potrebbe peraltro permettere un arricchimento culturale, consentire di sviluppare competenze specifiche più velocemente e incentivare un cambiamento di tipo strategico. C’è chi ha fatto della scelta dei dirigenti anche un elemento di valutazione. «Negli Usa sta diventando sempre più frequente» racconta Carlo Corsi, chairman di Spencer Stuart in Italia «il fatto che il capo azienda in procinto di lasciarla per raggiunti limiti di età si occupi anche della sua successione. Il cosiddetto succession plan prevede che vengano individuati due candidati interni poi confrontati, con l’ausilio di una società di head hunting, con altrettante opzioni esterne. Lo sviluppo della professionalità all’interno dell’azienda è uno degli elementi costanti di ogni buona gestione per questo qualsiasi organizzazione dovrebbe essere molto attenta a verificare la possibilità di collocare, in posizioni manageriale importanti, persone che vengono dall’azienda. In Italia non esiste ancora il fenomeno del succession plan, in ogni caso le aziende guardano e devono guardare tanto al management interno quanto all’esterno. Poi la scelta può dipendere da una logica di continuità o di discontinuità rispetto alle strategie attuate in passato». Ma nel caso in cui si vadano a pescare risorse all’esterno ci sono organizzazioni che rappresentano una garanzia in termini di formazione manageriale? «Storicamente» afferma Luigi Mancioppi «sono stati una certezza in questo senso Xerox, General Electric, Ibm, Procter &Gamble e Unilever nel largo consumo, e tante aziende del mondo farmaceutico come Schering, Lilly e GlaxoSmithKline. In Italia un ruolo analogo è stato svolto da società quali Eni, Enel, Fiat con il suo modello un po’ gerarchico, e Telecom». Concorda sull’importanza di Eni anche Carlo Corsi che «insieme ad Assicurazioni Generali godono di grande apprezzamento in Italia e all’estero».

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