Aziende in fuga dalla Borsa di Milano

Negli ultimi anni numerose società sono uscite da Piazza Affari, compresi alcuni grandi nomi. E se Wall Street resta un polo d’attrazione internazionale, anche la City di Londra soffre

In fuga dalla Borsa di Milano© Shutterstock

A forza di delisting, a Piazza Affari resteranno solo i convegni. Con oltre 50 miliardi di euro usciti negli ultimi cinque anni, il rischio per la Borsa di Milano è di rimanere ai margini della finanza globale. E non è difficile immaginare un epilogo simile a quello già visto con le piazze finanziarie locali. A poco più di due ore da Milano, il Palazzo della Borsa valori di Genova sta ancora lì a ricordare un passato glorioso, con la sua architettura neo-cinquecentesca e gli interni in stile liberty di Adolfo Coppedè. Uno sfarzo voluto nei primi anni del ‘900 dall’allora classe dirigente per celebrare quella che era una delle Borse valori più grandi in Italia per volume d’affari. Ma che nel giro di qualche decennio si è via via ristretta fino a diventare un mero convegnificio di lusso. Dentro le sue mura oggi si tengono solo eventi e mostre. Palazzo Mezzanotte farà la stessa fine? La Sala delle Grida (le azioni da 30 anni sono negoziate per via telematica) è già oggi uno dei parterre più richiesti nel capoluogo lombardo per eventi business. I listini milanesi, invece, non godono più della popolarità di una volta: negli ultimi 20 anni oltre 250 imprese italiane hanno scelto di revocare la quotazione dei loro titoli, grandi aziende del made in Italy, ma anche banche, holding e industrie pesanti.

Borsa di Milano: l’emorragia di aziende continua

Nonostante l’ottima performance a doppia cifra nel 2023, l’emorragia non sembra essersi arrestata. Altri due grandi gruppi hanno annunciato il loro ritiro da Piazza Affari: le calzature Tod’s e la raffineria Saras. Si sono aggiunti a una lunga lista che comprende, tra le più recenti, Atlantia, Autogrill, Cerved, Cnh, Exor, Falck Renewable. A spingerli fuori dalla Borsa, la forza d’attrazione di piazze finanziarie dove girano più soldi, ma anche operazioni di acquisizione. Soprattutto da parte di fondi di private equity, che hanno approfittato dei cali di Borsa per fare shopping a prezzi scontati. Di mezzo, c’è stato anche il processo di consolidamento del settore assicurativo e bancario, che ha portato nel giro di pochi anni al delisting di Cattolica Assicurazioni, Ubi Banca e Banca Carige. Lo scenario insomma è grigio, anche perché la competizione a livello globale non si fa più sentire solo al livello delle imprese, ma anche tra le piazze finanziarie. E se persino quella di Londra comincia a battere la fiacca, per la più piccola Borsa di Milano sarà sempre più difficile tenere il passo delle altre piazze.

È fuga da Piazza Affari? Non solo Tod’s e Saras: circa 300 addii in 20 anni

Un passo indietro nel tempo: quando l’Italia aveva 10 Borse valori

Fino a metà anni 90 del secolo scorso il nostro Paese ha avuto dieci Borse valori. Trieste, Venezia, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo nel 1996 sono state poi accorpate per decreto a quella di Milano, la più forte in virtù della sua locazione nella capitale finanziaria del Paese. Sono passati più di cinque lustri da allora. Alle ultime grida sono subentrate le negoziazioni su piattaforme informatiche. Piazza Affari, nel frattempo, ha cambiato due volte padrone, passando dai gestori della Borsa di Londra a quelli delle Borse di Parigi e Amsterdam. E ha iniziato a imporsi come mercato per le piccole e medie imprese, small-mid cap o micro cap in gergo, oltre che come location tra le più gettonate a Milano per i convegni e persino per le cene di gala. I tanti delisting delle blue chip, le imprese a più grande capitalizzazione, nel corso degli ultimi 15 anni hanno fatto crollare anche il volume degli scambi: poco più di 2 miliardi nel 2023, stando a quanto emerso sulla stampa finanziaria, pari a circa un terzo degli oltre 6 miliardi registrati nel 2007, l’anno prima della Grande crisi finanziaria. Intanto, negli ultimi dieci anni le imprese italiane hanno iniziato a guardare fuori confine per finanziarsi sui mercati pubblici: Amsterdam, Londra, New York, Parigi e persino Hong Kong sono tra le mete più gettonate per le Ipo del made in Italy. Nel fashion lo ha fatto Ermenegildo Zegna, sbarcata a New York, mentre gli yacht di lusso del gruppo Ferretti hanno preferito Hong Kong. Anche la doppia o tripla quotazione, con una presenza in Italia o in uno o più Paesi all’estero, sta diventando sempre più un’opzione presa in considerazione dai grandi gruppi italiani, sulla scia di quanto fatto da Ferrari e Stellantis, presenti a Milano e a Wall Street.

Il Palazzo della Borsa valori di Genova, dove ormai si tengono solo mostre e convegni (© Shutterstock)

Il fascino di Wall Street

Ma cosa attira nelle piazze finanziarie americane i grandi marchi italiani ed europei? Anzitutto, le dimensioni. Il mercato azionario a stelle e strisce ha ancora una posizione dominante e pesa per circa il 70% dell’indice MSCI World, che rappresenta i mercati azionari globali. Colossi tech, come Apple, oltre a un prezzo molto elevato hanno anche una capitalizzazione pari a quella della Borsa di Parigi. Ma il fascino per le imprese europee è rappresentato soprattutto dall’enorme liquidità in circolazione.

La quotazione al Nasdaq, il mercato dei titoli tecnologici, è invece una miniera di opportunità per le industrie del settore di tutto il mondo che intendono mettere un piede negli States e ricevere maggiori investimenti in futuro. Così come gli stanziamenti per la sostenibilità, come l’Inflation Reduction Act statunitense, che hanno aperto nuove opportunità per le aziende europee attive in questi settori, e hanno aumentato la tentazione di trasferirsi oltreoceano. A differenza di Bruxelles, Washington ha reso molto più snello e semplice l’iter per le aziende straniere che vogliono investire in settori strategici come l’energia o la tecnologia, in cui gli Usa sono all’avanguardia e stanno cercando di diventare autosufficienti nella produzione di semiconduttori, per ridurre la dipendenza dalla Cina e da Taiwan. Poi c’è l’industria del private equity, molto attiva anche in Italia negli ultimi anni. I fondi più grandi che operano a fianco delle imprese europee sono spesso gestiti da società con sede negli Stati Uniti e preferiscono muoversi nelle piazze che già conoscono in cui sono presenti banche d’affari e una sviluppata industria di servizi complementari alla finanza, dal tax & legal all’advisory.

La quotazione al Nasdaq, il mercato statunitense dei titoli tecnologici, è una miniera di opportunità per le industrie del settore di tutto il mondo (foto © Getty Images)

Anche la City batte la fiacca

La fuga non è solo da Piazza Affari. Anche Londra sta iniziando a perdere il proprio fascino, con il numero di società quotate che si è ridotto di circa il 30% in 20 anni e un crescente numero di aziende che optano per il delisting e il passaggio alla Borsa di New York. La storia della City, a ben guardare, non è poi così diversa da quella di Milano, riuscendo Londra, proprio come Piazza Affari, a imporsi nel Regno Unito accorpando le più piccole Borse di Aberdeen, Cardiff, Edimburgo e Leeds. Diventata in pochi decenni la capitale della finanza europea e tra le principali a livello mondiale, oggi non riesce più a competere con le piazze americane, che possono contare su un mercato finanziario colossale, grande 120 volte Piazza Affari. Un fiume in piena che fa sì che piccole start up tecnologiche raggiungano in un batter d’occhio capitalizzazioni a nove zeri. E così anche oltremanica, sempre più imprese decidono di fare le valige in direzione New York. Una recente inchiesta di Euronews ha acceso i riflettori sugli ultimi addii al London Stock Exchange, imprese innovative attratte dalle sirene della finanza made in Usa, tra cui le irlandesi CRH (materiali industriali), Flutter (scommesse sportive) e Smurfit Kappa (packaging), e le britanniche Arm Holdings (semiconduttori) e Argo Blockchain (criptovalute).

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Fiore all’occhiello per le pmi

Per la verità lo spopolamento dei listini è un fenomeno globale, fanno notare gli esperti, e non riguarda solo Milano e Londra, ma anche la piazza finanziaria per eccellenza, Wall Street, dove negli ultimi dieci anni il numero di società quotate ha subito una contrazione del 34%. Stessa tendenza nelle due principali Borse del Vecchio Continente: a Parigi le imprese quotate si sono ridotte del 25%, a Francoforte del 27%. Ma a differenza delle principali Borse sviluppate, che cercano di tenersi strette le blue chip nazionali, Milano invece continua a farsele scappare, abbandonandosi a un destino di piazza finanziaria di serie B focalizzata sulle small e mid cap. Dai dati emerge che i delisting si sono concentrati soprattutto sui listini principali della Borsa milanese, che hanno chiuso gli ultimi 20 anni con un saldo in profondo rosso (-83) tra delisting e Ipo, mentre il mercato per le pmi (AIM Italia, oggi Euronext Growth Milan) ha registrato un saldo eccellente (+195). A vedere quindi il bicchiere mezzo pieno, il punto debole di Milano potrebbe rivelarsi in verità la carta vincente per il futuro. In uno scenario globale sempre più competitivo, la strategia per la Borsa valori milanese sembra essere quella di diventare il fiore all’occhiello per le pmi, spina dorsale del tessuto produttivo italiano. Ma anche in questo caso occorre presidiare la nicchia, per evitare che ad andarsene dopo i giganti siano anche i lillipuziani.


Articolo pubblicato su Business People di maggio 2024, scarica il numero o abbonati qui

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