Votate Armani

Da assistente per le vetrine presso la Rinascente a celebrity al pari dei divi che veste. Tanto che, in una cena in suo onore durante la campagna elettorale Kerry-Bush, ha sdrammatizzato chiedendo di votare per lui, Giorgio Armani

Sono state una vetrina e due vecchie Volkswagen a fare la fortuna di Giorgio Armani. Oltre naturalmente a una serie di innumerevole di altri elementi che (non necessariamente nell’ordine) sono: tenacia e determinazione assolute, una continua e quasi maniacale ricerca della perfezione, predisposizioni artistiche evidenti, doti di business, naso finanziario, bravura nel gestire i collaboratori con pugno di ferro, e avanti così collezionando pregi, qualità, atout. Se non avesse tutto questo, e in dosi assolutamente superiori alla media dei comuni mortali, non sarebbe entrato nella ristretta cerchia di quelli che decidono il gusto e lo stile del mondo da quasi trent’anni. Rintracciare i suoi inizi, la sua storia di fondatore di un impero che – secondo le stime – vale attorno ai 3,5 miliardi e il cui pezzo forte è rappresentato ovviamente dalla moda, che fattura quasi 2 miliardi di euro, è un’impresa difficile. Perché gli archivi dei giornali sono pieni di articoli che lo riguardano, biografie, interviste, dichiarazioni in eventi di ogni tipo, ma che hanno una caratteristica che le accomuna: sono quasi tutte identiche l’una all’altra. Giorgio l’accentratore ha curato personalmente, giorno dopo giorno, i rapporti con i media con metodo, grinta e professionalità; poi budget pubblicitari miliardari spesi per anni su quotidiani e riviste hanno fatto il resto. Il risultato è che (con qualche rara eccezione di testate americane) la vita e le opere di Armani sono raccontate con uno stile che è a metà strada fra l’agiografia e la biografia dei membri del politburo dei tempi dell’Unione Sovietica.

Milanese di adozione

Armani è nato a Piacenza nel 1934, figlio di un impiegato e di una casalinga. Piccola borghesia, non molti mezzi ma neppure gravi disagi. La madre, durante la guerra, cuce gli abiti per la famiglia ricavandoli dalle divise militari. Tempi duri per casa Armani, come per tutti. A sedici anni il trasferimento a Milano: uno stabile di Porta Ticinese. Servizio militare, iscrizione all’Università di medicina e due anni di frequenza, neppure molto assidua. Poi una giornalista amica di famiglia gli procura un posto a La Rinascente: assistente per le vetrine. Come status non è nulla, qualcosa di simile al garzone di bottega, all’apprendista. Ma la vetrina gli permette di impostare in modo vincente il suo rapporto (allora neppure ancora immaginato) con la moda. Tutti i consulenti di strategie aziendali che seguono il settore del fashion sono d’accordo nel dire che Armani ha una tipologia diversa, particolare, tutta sua nel panorama degli stilisti del made in Italy. Nella stragrande maggioranza dei casi, se non nella totalità, sono dei creatori puri, artisti che hanno un’idea geniale, disegnano il modello ma poi si sottraggono a tutte le fasi successive. Gli inizi di Armani sono invece le vetrine dei grandi magazzini milanesi: dal mercato e dalla sua osservazione. Giorno dopo giorno capisce che un certo capo esposto funziona e un altro no, impara a interpretare i gusti del pubblico, il loro evolversi. In quel lavoro, evidentemente, riesce bene perché è promosso e nominato, sempre in La Rinascente, responsabile di una boutique per uomo sperimentale. Ma quell’incarico non dura a lungo: ormai dalla vetrina, da quella formidabile antenna sul mercato, ha imparato quanto gli serve e se vuole, come sogna, diventare lo stilista deve compiere il passo successivo. E così si dimette per andare a lavorare da Nino Cerruti. Il suo capo alla Rinascente, al momento del commiato, gli dice: «Ricordi Armani: lei sarà sempre e solo un numero due». Non eccezionale come profeta.

L’esordio

Nino Cerruti, di poco più anziano di Armani, appartiene a una famiglia di tessili biellesi e ha dovuto assumersi la responsabilità dell’azienda a soli 20 anni, alla scomparsa del padre. Lo spirito imprenditoriale lo ha nel sangue; a questo, di suo, aggiunge il talento di stilista e la voglia di innovare. Nel corso degli anni fa diventare il suo nome un marchio a livello internazionale, conosciuto soprattutto per l’innovazione di linee e materiali. La Cerruti, con il suo know how tecnologico, le sue capacità produttive e commerciali, è l’università di Giorgio Armani, è qui che si fa le ossa, impara qual è la strada giusta per diventare non solo un grande stilista, ma un protagonista del sistema moda. Entra da Cerruti nel 1965, quando ha poco più di 30 anni. Nel 1972 si sente pronto per fare il salto, per mettersi in proprio. Ad affiancarlo c’è l’amico, e per lungo tempo compagno nella vita, Sergio Galeotti. E qui entrano in scena le Volkswagen di cui si parlava all’inizio: ne possiedono entrambi una, le vendono e con il ricavato finanziano la società che nasce quell’anno con un capitale di 2 milioni e mezzo di lire. Galeotti si occupa della parte organizzativa dell’impresa, è il manager; Armani lo stilista che inventa, crea, ma con un occhio molto attento al mercato, al business, proprio grazie all’esperienza maturata. La loro prima sede è in corso Venezia, nel cuore di Milano, a un passo da quello che, poco dopo e grazie anche a loro, diventerà il famoso quadrilatero della moda. Il pubblico apprezza subito la nuova griffe e nel 1980 c’è la prima, clamorosa affermazione: Richard Gere, nel film American Gigolo indossa una giacca Armani. Racconta a Business People un suo dipendente dell’epoca, uno che era in corso Venezia a fare da apprendista: «Armani è stato il primo a usare lo star system per affermare il suo prodotto. Certo altri, come Dior, avevano utilizzato le dive o signore dell’altra società, ma Armani lo ha fatto sistematicamente. Ha capito l’immensa importanza che avrebbero potuto avere per la moda i testimonial. E ha usato tutte le sue energie per entrare nel mondo del cinema, dello spettacolo, ma anche dello sport. Ricordo che nell’82-83 ha disegnato la divise del Milan. L’idea ha funzionato e da allora ha fatto ricorso ai campioni dello sport. Ma è stato soprattutto con il mondo dello spettacolo, dive e divi, che ha instaurato un rapporto di collaborazione particolarmente intenso. Ricordo che la boutique di via Sant’Andrea a Milano, inaugurata nel 1983, certi giorni rimaneva chiusa al pubblico se qualche star, come Tina Turner, Diana Ross, Ryan e Tatoom O’Neal, voleva fare shopping: Giorgio riservava l’intero negozio per loro. Fuori c’erano i giornali, le Tv che aspettavano l’uscita della diva di turno carica di pacchi Armani. Un’idea di comunicazione straordinaria. Che in pochi anni ha fatto di Armani un nome conosciuto in tutto il mondo».

La cura per il dettaglio

Conosciuto al punto che la rivista americana Time, nel 1982, gli dedica una copertina. Solo Dior aveva avuto lo stesso trattamento, quasi 40 anni prima. Dopo quel trionfo, arrivano anche i momenti difficili, sul piano personale e professionale. Nel 1985 manca Sergio Galeotti, compagno nella vita e partner, il manager che aveva la gestione operativa dell’impresa e ne teneva le redini dal punto di vista organizzativo, commerciale e finanziario. Un suo collaboratore dell’epoca, uscito poco dopo dal gruppo per incompatibilità di carattere, ricorda che nell’ambiente molti pensavano che senza Galeotti l’impero Armani non sarebbe andato lontano perché Giorgio non sarebbe stato in grado di far fronte, da solo, a situazioni così complesse. «Invece non è successo nulla di tutto questo: Armani si è trasformato, ha continuato a fare il creativo, ma ha assunto anche in prima persona la guida dell’intera azienda. E l’operazione è riuscita perfettamente: i risultati sono lì a dimostrarlo».Secondo molti di quelli che lo conoscono bene (amici e nemici, numerosi entrambi) tutto è filato liscio perché Armani è un accentratore assoluto, per natura. Vuole controllare personalmente ogni dettaglio di qualsiasi oggetto (dai capi di abbigliamento, agli occhiali, fino ai profumi) abbia il marchio Armani. Gli viene attribuita questa frase che ripeterebbe spesso: «Se qualcosa porta il mio nome, allora voglio conoscerne fino all’ultimo dettaglio». Sempre secondo amici e nemici c’è soltanto una persona in Italia che accentri quanto lui: Silvio Berlusconi. In questo si assomigliano. Forse non solo in questo. Anche Armani ha un’altissima autostima. Un esempio? Non sa l’inglese e non si è mai preoccupato di studiarlo. Eppure si tratta della lingua del business, del suo business. A chi in passato si è permesso di fargli notare che forse avrebbe dovuto fare un piccolo sforzo, rispondeva: «Io sono Armani e parlo italiano. Se gli altri vogliono comunicare con me devono adeguarsi». Uno che faceva parte del suo seguito ricorda una serata a New York nell’autunno del 2004, alla fine della campagna per le presidenziali alla Casa Bianca che vedevano il senatore democratico John Kerry correre contro George W. Bush: «La serata era dedicata a Giorgio, tutti gli oratori sul palco lo celebravano. A un certo punto ha preso la parola Michelle Pfeiffer e anche lei ha detto parole gentilissime per Giorgio, ma ha concluso invitando il pubblico a votare per Kerry. Poi è toccato a lui. È salito sul palco, ha ringraziato e guardando verso la Pfeiffer, ha detto: Votate Armani. Ed è tornato sorridente al suo posto».Lavorare con Armani è l’aspirazione di moltissimi giovani che vogliono entrare nel mondo della moda. Ma non è facilissimo. Ricorda uno che anni fa è stato suo dipendente: «I rapporti con lui sono complicati. Con i collaboratori è durissimo, il suo furore proverbiale. È ossessionato dai dettagli e pretende la perfezione da tutti. A volte si arrabbia, alza la voce, può anche arrivare a essere brutale. Però ricordo anche che cosa erano le sfilate con lui: mi è rimasto impresso l’ultimo controllo prima che la modella uscisse in passerella. In dieci secondi era capace a forza di piccoli ritocchi di trasformare un capo. Le sue mani si muovevano velocissime, sembrava che forgiassero la materia prima».Queste mani in 37 anni hanno fatto crescere un gruppo che ora è ai primi posti al mondo nel settore moda, ha diversificato e non ha debiti. Ha solo un grande interrogativo, come tutte le aziende che ruotano attorno alla figura carismatica del fondatore: quando Armani deciderà di andare in pensione chi prenderà il suo posto? La nipote Roberta (che ha sposato Angelo Moratti figlio del presidente dell’Inter)? Oppure un manager? O il gruppo verrà ceduto a una multinazionale come ciclicamente alcune voci sostengono? Per ora Armani non risponde, se non evasivamente. In un’intervista al New York Times ha detto: «Per adesso non penso a lasciare il mio giocattolo. Perché a questo giocattolo ho dedicato la vita».

Momenti clou

11 luglio 1934

Giorgio Armani nasce a Piacenza

1965

Lascia il lavoro come vetrinista per La Rinascente ed entra in Cerruti

1975

Nasce la Giorgio Armani spa

1982

Time gli dedica la copertina

1983

Inaugura la boutique di via Sant’Andrea a Milano

2000

La Fondazione Solomon R. Guggenheim gli dedica una mostra retrospettiva

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