«Lo dico apertamente: non credo esista una leadership femminile. So bene che esistono manuali, teorie e numerosi testi a supporto di questa tesi, ma se guardo alla mia esperienza personale e al mio vissuto, posso dire di aver lavorato e conosciuto uomini portati a una visione gerarchica e assertiva del potere, con uno stile obsoleto di comando, e altri dediti all’ascolto e all’empatia. Così come ho visto donne al vertice replicare modelli tradizionali e altri più innovativi e partecipativi. Per questo sono convinta che la leadership non dipenda dal genere, ma dal carattere della persona, dalle sue esperienze, dai valori in cui crede. Per me il leader migliore è quello che sa alternare i diversi stili, a seconda delle dinamiche e delle situazioni. La leadership non è potere, è responsabilità». Cristina Scocchia, Ceo di Illycaffè, parla al telefono con la voce limpida di chi su questi si interroga da tempo. Ha costruito con tenacia una carriera che ha pochi eguali in Italia diventando una decina di anni fa, quando era madre di un bambino piccolo, amministratore delegato di L’Oréal Italia e poi nel 2017 a.d. di Kiko e da gennaio del 2022 dell’azienda triestina. Scocchia, che siede anche nel cda di EssilorLuxottica e di Fincantieri, non è solo una delle poche donne amministratrici delegate nel nostro Paese, ma è anche una delle pochissime che ha ricoperto questa carica per tre volte. La sua interessante autobiografia, pubblicata di recente da Sperling& Kupfer e redatta insieme alla giornalista Francesca Gambarini, ha per titolo Il coraggio di provarci. Ed è da qui che ci piace riprendere la chiacchierata.
Perché questo titolo?
Il coraggio è ciò che fa la differenza. Ci è data una sola possibilità, la vita è una: bisogna giocarsela, guardarsi dentro, capire che cosa si vuole e avere il coraggio di provarci. Comunque vada a finire, varrà sempre la pena scendere nell’arena.
Lei quando è riuscita a guardarsi dentro e a capire che cosa avrebbe voluto fare “da grande”?
Sono nata in un piccolo borgo di 2 mila anime della Liguria, da una famiglia normalissima con una mamma maestra d’asilo e un papà professore di educazione tecnica alle medie. Non avevo le cosiddette spalle coperte, non avevo network. Ero quella che si dice “una provinciale” e per di più donna. Grazie all’aiuto di mio padre, un educatore nato, ho capito che lamentarsi sarebbe servito a poco e mi sono data da fare: ho lavorato e studiato insieme (Scocchia si è laureata con il massimo dei voti alla Bocconi di Milano, ndr). Sono stata determinata, costante. Ho fatto tanti sacrifici. E ho avuto anche un pizzico di fortuna. Quando ho cominciato a lavorare in Procter&Gamble non sapevo fin dove sarei arrivata.
Qual è stata, nella sua carriera, la decisione più coraggiosa che ha preso?
Ce ne sono state tante. Lasciare Procter&Gamble, un’azienda che mi ha fatto da “madre” e nella quale sono cresciuta e mi sono formata, è stata di certo una decisione coraggiosa. E poi penso a quando, all’inizio della pandemia, ho preso decisioni impopolari. Ho voluto, ad esempio, chiudere per quattro settimane l’e-commerce di Kiko per non mettere a rischio la salute dei lavoratori che effettuavano le consegne. Abbiamo perso dei soldi, in un momento in cui gli acquisti online galoppavano, ma sono fiera della scelta fatta: per me le persone vengono prima di tutto, senza se e senza ma.
Lei è una delle poche a.d. in Italia: il nostro è ancora un “Paese per uomini”?
Sento ancora forte e chiaro il pregiudizio. In certi contesti, a parità di grado, io sono “la signora” e i colleghi uomini “i dottori”, un uomo se è volitivo sul lavoro è “determinato”, una donna invece è “ambiziosetta”. Nonostante non manchino role model di donne di successo in diversi ambiti, penso ad esempio alla politica che vede una premier e una donna alla guida dell’opposizione, il soffitto di cristallo che impedisce alle italiane di accedere ai piani alti del potere c’è, eccome.
Che suggerimenti darebbe, dunque, a una giovane che volesse intraprendere una carriera manageriale?
Gli stessi che darei a un uomo: non permettere al tuo punto di partenza di definire chi sei, guardati dentro e cerca di capire qual è il tuo sogno, dedicati a questo con impegno e determinazione. Alle donne aggiungerei però una postilla: non lasciare che stereotipi e pregiudizi ti limitino, ma non usarli nemmeno come alibi per mutare le tue aspettative, non smettere di provarci, non accontentarti. La salita è dura, ma non bisogna scoraggiarsi.
Che cosa si può fare per una maggiore equità di genere sul lavoro?
Serve un cambiamento culturale. Se continuiamo a pensare a noi donne solo come portatrici di empatia e gentilezza, quasi fossimo gli angeli dei consigli di amministrazione, non andremo lontano. Manca anche la consapevolezza che a uomini e donne deve essere dato lo stesso diritto di potersi realizzare professionalmente e gli stessi doveri di occuparsi dei carichi familiari. Iinfine, servono in Italia maggiori servizi di supporto alle famiglie e a questo ci devono pensare i governi. In azienda, ho sempre creduto nella valorizzazione del merito. Noi donne non abbiamo bisogno di una porta più grande per fare gol, ma di avere le stesse opportunità di toccare la palla. Ci servono le possibilità di dimostrare il nostro valore. Da noi, in Illycaffè, non esistono quote rosa o quote azzurre. Abbiamo invece quella che io chiamo l’ossessione per il merito: se questo diventa il metro di ogni cosa, la diversità in ogni sua forma emerge in azienda in modo automatico.
È stato difficile conciliare un lavoro come il suo con la maternità e la crescita di un figlio che oggi è adolescente?
Diventare mamma è stata la cosa più bella della mia vita, non smetterò mai di ripeterlo. Se è vero che ho lottato con le unghie e con i denti per diventare amministratore delegato, nulla mi ha mai dato una soddisfazione pari a quella di essere genitore. Ricky, mio figlio, farà sempre la differenza. Lo dico spesso anche alle colleghe più giovani: la carriera è importante, ma non è la cosa più importante. Così come non volevo che essere l’amministratore delegato di un’azienda fosse un ruolo totalizzante, allo stesso modo, diventata madre di mio figlio, non ho voluto definirmi univocamente. Ho imparato presto a fare il giocoliere. Nessuno giocoliere, anche il più bravo, può tenere tutte le palle in alto allo stesso momento: ci sono sempre alcune palle che salgono e altre che scendono. Fuor di metafora, questo significa che non si può essere sempre perfette in ogni ambito. Ci sono periodi in cui si lavora molto per spingere alcune palle in altro e magari altre, nel frattempo, scendono un po’ e allora bisogna stare attente a prenderle, prima che si frantumino a terra. Questo significa imparare ad azzerare i sensi di colpa e a dare la giusta priorità a cose diverse, a seconda delle situazioni.
In pratica, nella vita di tutti i giorni, come ha fatto?
Da quando mio figlio è nato, ho deciso di dedicare a lui momenti di qualità: quello della colazione e quello della cena. Ho rinunciato al networking, che di solito si fa negli eventi serali, che sarebbe di certo utile per un ruolo come il mio. Preferisco stare con mio figlio: per me è giusto così. Ho rinunciato anche a un po’ di tempo per me stessa e ad alcuni miei hobby. È inutile girarci troppo intorno: non si può fare tutto, se si è a capo di un’azienda. Tuttavia, se mi guardo indietro, sono felice di constatare che la mia vera carriera l’ho fatta quando mio figlio c’era già e sono convinta che la maternità mi abbia arricchita profondamente come persona anche nel lavoro.
Questa intervista a Cristina Scocchia è tratta da Leadership. Il femminile al plurale, inserto di Business People di luglio-agosto 2024. Scarica il numero o abbonati qui
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