Il mio patto per l’Italia

La proposta di Raffaele Bonanni, leader della Cisl, agli industriali: più produttività in cambio di salario e sicurezza. «Noi ci stiamo, gli industriali anche, chi mi preoccupa sono i politici»

Raffaele Bonanni ha appena finito il suo discorso agli industriali di Genova. Ed è stato applaudito. Fino a pochi anni fa gli industriali accettavano con sospetto, se non con diffidenza, i sindacalisti che salivano su un palco di una loro manifestazione per prendere la parola. Con Bonanni non è così. Lo applaudono pure, alla fine del suo discorso. Come mai? Per i suoi nemici perché è l’erede del “sindacalismo giallo” sempre dalla parte delle imprese e molto meno dalla parte dei dipendenti. Per i suoi sostenitori è l’unico che abbia capito la gravità della situazione e che abbia accettato di scendere dal piedistallo di una difesa a oltranza del passato per guardare avanti. Verso cosa? Lo spiega lui stesso in questa intervista nella quale racconta esattamente in che cosa consiste il “patto” che propone agli industriali, ai quali chiede solo una cosa: rispettare gli accordi e le alleanze che vengono stretti e firmare intese che abbiano come riferimento il “modello Pomigliano”, che ha permesso non solo di salvare un grande sito industriale in Campania, ma ha anche convinto, seppur dopo molti tentennamenti, la Fiat a investire 20 miliardi in cinque anni in Italia.

Il suo sindacato parla spesso di un “patto” con gli imprenditori. Può spiegare di che cosa si tratta?

È molto semplice: si tratta di trovare il sistema di firmare gli accordi più logici possibili per far salire la produttività dell’azienda puntando al pieno utilizzo degli impianti. Per raggiungere questo obiettivo siamo disposti a contrattare gli orari, i turni, l’organizzazione del lavoro, la flessibilità. In cambio chiediamo riconoscimenti salariali e una maggiore tutela del lavoro. Tutto questo ha come conseguenza il fatto che gli imprenditori, potendo contare su un fattore del lavoro che lo segue, sono stimolati a maggiori investimenti sia in nuovi impianti che in nuovi prodotti.

È quello che sperate accada a Pomigliano?

Quello è un per noi un modello: l’imprenditore investe e dà maggiore sicurezza in cambio di maggiore salario e il sindacato è disponibile a contrattare per raggiungere il massimo utilizzo degli impianti per ottenere maggiore qualità e quantità di prodotto.

Però proprio su Pomigliano è scoppiata una polemica feroce tra lei e la Cgil. L’accusa è che la Cisl ha barattato i diritti dei lavoratori con soldi. Non è un po’ così?

Ma quali diritti? Queste sono solo chiacchiere e slogan. A Pomigliano non è stato intaccato un solo diritto fondamentale dei lavoratori, anzi, abbiamo rafforzato il diritto a un salario maggiore.

Però questa rottura sindacale è rischiosa perché potrebbe trasformare le trattative per ogni nuovo contratto in tanti piccoli Vietnam.

Noi andremo avanti sulla nostra impostazione perché crediamo profondamente che sia quella giusta, quella di cui l’Italia e i lavoratori hanno bisogno. Chi sostiene che è stato intaccato il diritto di sciopero, lo dice in base al fatto che abbiamo dato il via, a Pomigliano, per esempio, al 18esimo turno, che poi consiste nel fatto che si lavora anche di sabato, ma dimentica che anni addietro, quando il tessile ha attraversato una crisi drammatica che rischiava di spazzarlo via dalla faccia dell’Italia, noi abbiamo accettato di lavorare addirittura di domenica. Era l’unico modo per salvare il comparto e neutralizzare la concorrenza straniera basata su prezzi inferiori, e nello stesso tempo, mantenere inalterati i salari degli italiani. Lo ripeto, l’unico modo per mantenere almeno stabile l’occupazione è utilizzare appieno gli impianti e, soprattutto in settori nei quali il costo del lavoro incide molto sulla determinazione del prezzo finale del prodotto che si produce, l’unico modo per non abbassare i salari è aumentare la produttività. E, d’altra parte, è anche l’unico modo che esiste per ammortizzare gli investimenti in impianti spesso anche molto costosi come le macchine robotizzate.

I suoi iscritti la seguono su questa strada? Cioè: lei può garantire che in tutte le categorie e sedi periferiche della Cisl questo è la posizione che prevale?

Noi non abbiamo orpelli ideologici, siamo pragmatici perché non siamo collegati a nessun partito e non abbiamo ideologie e, infatti, si iscrivono persone di tutti gli orientamenti ideologici o politici. Pur essendo aconfessionali, l’unica nostra appartenenza è la dottrina sociale della Chiesa. Con questo voglio dire che il nostro faro è la concretezza, noi facciamo solo ciò che va verso la difesa dei diritti dei lavoratori. Tutto questo ci difende dall’ideologia e ci permette di essere leali: quando firmiamo un patto o un contratto anche a livello locale, noi lo rispettiamo. Non abbiamo nessuno a cui rispondere se non i lavoratori.

E i suoi iscritti? Sono anche loro convinti della scelta della Cisl?

Il discorso che faccio ai miei, delegati o iscritti che siano, è molto semplice: c’è una certa differenza tra avere un albergo utilizzato 365 giorni l’anno sempre pieno o averlo pieno solo 180 giorni l’anno. Se aumenta la produttività molte delle disfunzioni di sistema con cui l’Italia deve fare i conti vengono superate. La Cisl questo discorso l’ha ben presente, altri meno, ma io parlo per la mia organizzazione e per noi è chiaro che l’Italia deve affrontare da una parte la concorrenza straniera e dall’altra il fatto che i nostri concorrenti di una volta si sono già ristrutturati e noi no. Per noi è chiaro che se non ci si muove in questo modo il futuro ci riserverà salari più bassi e meno posti di lavoro.

Questo, però, è quello che già sta accadendo. La disoccupazione non scende: siamo intorno all’8,5% che è sì una percentuale inferiore alla media europea, ma il numero impressiona lo stesso.

Sì, il dato impressiona ma se vogliamo guardare al futuro e cercare di creare nuovi posti di lavoro e non perdere quelli che abbiamo, dobbiamo guardare altri due numeri. Il primo ci dice che il reddito procapite è sceso del 7% in dieci anni e le previsioni ci dicono che se la situazione non cambia dobbiamo mettere in conto per i prossimi cinque anni altri cinque punti in meno e questo accade proprio per la bassa produttività di cui parlavo e per le troppe tasse caricate sul lavoro dipendente. L’altro dato è il costo per unità di prodotto nelle manifatture: è aumentato in dieci anni del 20% mentre i tedeschi hanno diminuito il costo del 10% e i francesi del 7%. Vuol dire che noi abbiamo delle disfunzioni del sistema, come per esempio l’energia costosa, le infrastrutture che non ci sono, le tasse troppo alte, i servizi inefficienti e costosi e le mafie in varie parti d’Italia. E potrei continuare all’infinito citando fattori che fanno costare i nostri prodotto più di quanto costino ai nostri concorrenti. Quindi, e qui arriva un secondo punto importante, il patto tra sindacato e imprenditori riesce a fare poco se non entra in campo la politica.

Voi vi piccate di non essere un sindacato “politico”.

Infatti, ma in questo caso si tratta di stringere un patto che non solo tra noi e il mondo dell’industria, ma tra noi, l’industria e le amministrazioni pubbliche centrali e periferiche per affrontare con molta più decisione di quanto non sia stato fatto fino a oggi la grande questione dell’ammodernamento del nostro Paese. Senza l’intervento dello Stato e delle amministrazioni locali, noi possiamo fare tutti gli sforzi del mondo, ma non andremmo molto lontano. Purtroppo negli ultimi tempi la politica non sta dando il buon esempio: per troppo tempo abbiamo vissuto in mezzo alla confusione e alle banalità, eppure sono 20 anni che nessuno si preoccupa di ammodernare il paese. E questo è compito della politica. Solo che…

Solo che?

Solo che quello che mi fa disperare ogni volta è che la gente normale capisce benissimo tutto questo, magari anche solo istintivamente. Purtroppo sono spesso le classi dirigenti a non capire cosa si deve fare per fare uscire l’Italia dalla crisi, per ripartire. Spesso ho il sospetto che nessuno tra le classi dirigenti italiane voglia prendersi qualche responsabilità. Perché è chiaro che sostenere queste cose significa andare contro le abitudini, i luoghi comuni, ma se rischiamo di affondare è proprio per la mancanza di coraggio e per l’abitudine a ragionare sulla base di luoghi comuni del passato.

E voi come sindacato non avete nulla di cui sentirvi colpevoli per il fatto che da 20 anni nessuno ha pensato a ristrutturare, anche dal punto di vista amministrativo, l’Italia?

Può darsi, d’altra parte siamo dentro questo mondo, non viviamo sulla luna.

Trova indifferenza anche tra gli industriali?

No, a dire la verità no. In questo biennio appena passato ci hanno guadagnato loro e ci abbiamo guadagnato noi. Abbiamo costruito molte alleanze anche a livello locale che hanno salvato migliaia di posti di lavoro. E questo lo sanno tutti, anche se non se ne parla, ma i lavoratori ne sono ben consci: questo patto funziona.

Resta il problema dell’innovazione, degli investimenti in ricerca e sviluppo. Quale è la sua ricetta a questo proposito?

L’innovazione di prodotto e processo molti industriali lo fanno, anche perché noi, insieme alla Germania, siamo un Paese a forte presenza manifatturiera e se i nostri imprenditori non facessero investimenti in questo settore, avrebbero già chiuso. Il tema che dobbiamo affrontare è che la struttura imprenditoriale italiana è fatta di piccole e medie imprese che sono spesso sottocapitalizzate. E per questo noi chiediamo da sempre un meccanismo a sostegno dei loro investimenti in questo settore ma ci scontriamo, anche in questo caso, con una carenza della politica che troppo spesso non se ne interessa. Credo che il pubblico debba in qualche modo “fertilizzare” l’industria attraverso strumenti che mettano in condizione le piccole e medie o ad associarsi per finanziare insieme la ricerca e sviluppo.

C’è un aspetto che vi viene sempre rinfacciato: quello di difendere chi è “dentro” il mondo del lavoro e non fare abbastanza per chi è “fuori”, non solo disoccupati, ma anche giovani, ricercatori, donne…

I nostri iscritti pagano tra i 150 e i 200 euro l’anno: siamo ben diversi dai partiti politici che quasi sono loro a pagare le persone perché si iscrivano. Chi paga così tanto ha il diritto a essere difeso. Ma il punto è che chi oggi non ha lavoro può sperare di averlo solo se l’economia si rafforza davvero e non grazie a qualche legge regionale che qualcuno sta facendo per assumere in un colpo solo migliaia di persone per lavori improduttivi. Quelle sono solo illusioni. Insisto: dobbiamo puntare al rafforzamento della struttura industriale, battere la concorrenza e difendere i posti di lavoro che ci sono oggi per poterne creare di nuovi in futuro.

IL LAVORO IN ITALIA

8,5%

Il tasso di disoccupazione (27,9% per i giovani)

7%

Variazione del reddito pro capite in dieci anni

5%

Ulteriore calo del reddito pro capite previsto per i prossimi cinque anni

+20%

Aumento del costo per unità di prodotto nelle manifatture negli ultimi dieci anni

-10%

Diminuzione del costo per unità di prodotto in Germania (e -7% in Francia) negli ultimi dieci anni

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