Verdi e buoni

Se prima l’approccio green era prerogativa di una nicchia di fondamentalisti del vino “naturale”, più attenti all’impatto ambientale che alle caratteristiche organolettiche, oggi è la chiave di volta per conquistare un nuovo mercato in rapida espansione. E anche il gusto e la qualità si affinano sempre di più

Da quando l’anno scorso abbiamo realizzato il primo speciale dedicato al vino attento alla natura, si può dire sia successo quasi di tutto, con approcci che da filosofie di nicchia sono diventati punti di forza dell’intero mercato. E che hanno finito con il portare in questo mondo una ventata di novità che non si vedeva da anni. Da una parte abbiamo assistito (grazie anche allo spazio concessogli durante Vinitaly denominato ViVit) allo sdoganamento presso il grande pubblico dei vini cosiddetti naturali o biodinamici, prodotti in genere in piccole quantità da uve di vigneti di proprietà dei produttori senza l’uso di fertilizzanti chimici o pesticidi, senza lieviti selezionati per innescare la fermentazione e con basso tasso (o anche nessuna aggiunta) di anidride solforosa, un conservante che protegge il vino e aiuta la vinificazione dai tempi degli antichi romani, oggi sul banco degli imputati a causa delle allergie e di altre reazioni indesiderate che provoca in chi la consuma. Un importante ritorno alla naturalità che è nato da tanti vignaioli artigiani in maniera sparsa o raggruppata in piccole associazioni, ma che è diventato mainstream con aziende anche industriali, desiderose di avvicinarsi a un mercato che già vale per i vini di qualità in enoteca e al ristorante (quindi escludendo Gdo per adesso) quasi il 5% del totale. Una percentuale solo apparentemente bassa, che rappresenta invece una soglia psicologica di rilievo. Tanto che sono scattati i primi clamorosi sequestri di vini messi in vendita come “vino naturale” in una enoteca di Roma. Un fatto strano se non lo si inquadra all’interno di un grande cambiamento nel mondo del vino, dove i “grandi” vogliono sempre più apparire naturali e semplici, perché il consumatore ha sempre più bisogno di rassicurazione sulla genuinità (spesso prima che della qualità) di quello che beve in tempi di crisi, in cui le certezze sembrano venire meno.

NO ALL’ANIDRIDE SOLFOROSA

La lotta all’anidride solforosa ha visto nascere una progetto come Freewine, un protocollo di produzione che consente una drastica riduzione dei solfiti (tre-cinque volte inferiori ai limiti di legge, quando non del tutto assenti), permettendo di rispettare la natura del frutto e del suo gusto nel tempo. Adottato da 30 cantine in Italia, si prevede che avrà ulteriore espansione grazie all’accordo con Aiab, l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica. Il mantra è quello di realizzare vini con minimi input chimici e, soprattutto, senza sostanze potenzialmente dannose, in teoria un aspetto tutelato anche dal Regolamento europeo 203/2012, recentemente approvato ma rivelatosi molto permissivo a detta di diversi operatori “naturali” italiani. Direzione simile per il consorzio MAgis, che allarga la considerazione inglobando un altro concetto molto in voga, ovvero “sostenibilità”, intesa da vari punti di vista: non solo salutistico, ma anche ambientale e sociale. Dal 2009 MAgis è un network di produttori di vino, scienziati, enologi, associazioni e industrie che promettono una razionalizzazione del processo con l’idea di agricoltura di precisione. Il suo motto? «Fare solo quello che serve, solo dove e quando serve», attingendo a un database (accessibile su www.magisvino.com) dove i vari attori possono depositare dati e conoscenze personali e condividerle con altri membri del network, un sistema che sta cominciando a funzionare con grandi vantaggi per tutti. Risultato eccezionale se si pensa che generalmente la nazione del vino “naturale” è fatta di tante parrocchie, ciascuna detentrice della verità assoluta, e tutte litigiosissime. Sempre sul fronte anti-SO2 (una battaglia viva da anni, si pensi che per Oscar Farinetti, patron di Eataly, una riduzione del 50% dei solfiti darebbe un’accelerazione fenomenale all’export), sono stati presentati vini che nascono con il concetto di rinuncia alla SO2 in etichetta, come il noSO2 Jeio Bisol 2009, dai profumi di mela renetta e sidro, zafferano e miele, bocca lievemente ossidata ma piena, rilassato e compassato, dal finale allegro e delicatamente fruttato, o il vino dei fratelli Barberani, storici produttori Orvietani, il VI NO SO2. Si tratta di un Orvieto Doc Classico Superiore 2011, quindi un nettare tradizionale e conosciutissimo, ottenuto da uve di varietà Grechetto e Trebbiano Procanico, ma realizzato senza usare solforosa, grazie alla disinfezione delle uve e dei macchinari di cantina utilizzati con ossigeno attivato, la fermentazione e affinamento in riduzione, cioè senza contatto con l’ossigeno. Il tutto è reso possibile dalla presenza di sostanze antiossidanti presenti già nelle uve di Grechetto, rarità quasi assoluta nei vitigni bianchi. Al gusto è un Orvieto vero e completo, con note gialle di fiori e frutta fresca con cenni anche tropicali e in bocca morbido e succulento.

LA CANTINA FA LA SUA PARTE

Di pari passo con la naturalità dei vini va la sostenibilità della cantina… inutile infatti produrre secondo coscienza e ambiente per poi costruire cattedrali nel deserto dal grande impatto ambientale e paesaggistico. Se da un lato fa discutere la nuova spettacolare cantina Tartaruga della Famiglia Lunelli (la stessa dello spumante Trento Doc Ferrari) in Umbria, a Montefalco, faranno piacere ai fan del green building le ultime realizzazioni in Toscana di Antinori con Le Mortelle a Castiglion della Pescaia, la Tenuta dell’Ammiraglia di Marchesi Frescobaldi, San Felice a Castelnuovo Berardenga, l’ormai famosa cantina “carbon free” di Salcheto a Montepulciano e quella in val di Cecina di Ginori Lisci, quasi tutte alimentate da biomasse, luce naturale, coibentazioni particolari per sfruttare l’energia geotermica e pannelli solari con lo scopo di ridurre al minimo o addirittura azzerare il consumo di elettricità e di CO2. Fuori dalla Toscana, sta lavorando tantissimo in questo campo CasaClimaWine, emanazione enoica di Casa Clima, società bolzanina che certifica l’impatto ambientale di edifici e strutture. Per il vino sono tenuti in conto aspetti non solo legati alla cantina e alla vinificazione, ma anche elementi come gli imballaggi e responsabilità sociale (contratti, diritti dei lavoratori, gestione amministrativa). Tra le cantine certificate da CasaClima, ricordiamo la storica Jermann di Dolegna del Collio (Go) e, di recente, la cantina altoatesina Pfitscher, famosa per i suoi cru Pinot Nero Fuchsleiten e la linea Stoass con Merlot e Lagrein sempre ricchi di profumi alpini e dal carattere forte.

E LO CHAMPAGNE CI PROVA

Una delle zone vinose più disastrate dal punto di vista ambientale è sempre stata la Champagne, che a causa del grande successo del prodotto – e la conseguente corsa allo sfruttamento selvaggio di ogni ettaro disponibile – in passato è arrivata ad ammettere lo spargimento di rifiuti urbani tra le vigne come concime “naturale”. Oggi la reazione dei vigneron è stata veemente, con decine di coltivatori che, invece di vendere alla grande maison di turno (come Moet, Veuve Clicquot o anche cooperative come NicolasFeuillatte o Jaquart), decidono di ripartire dalla loro terra vinificando e producendo champagne in proprio, affinando in cantine spesso di fortuna, e non certo in grado di rivaleggiare con i chilometri di gallerie sottarenee di Reims di Ruinart o Pommery. Da questi produttori è scaturita la voglia di valorizzare il territorio e la natura circostante come chiavi per la riscoperta della terra di Champagne. Valga per tutte l’esempio di Pommery, che ha adottato un protocollo atto ad abbattere entro il 2020 le emissioni di anidride carbonica in atmosfera del 25%. Il che implica la riduzione di utilizzo di acqua (da 1,67 a 0,50 litri per ogni bottiglia prodotta), la selezione molto rigorosa dei rifiuti e la loro valorizzazione, ma soprattutto bottiglie più leggere di 65 grammi (da 900 a 835 grammi per contenitore). Il risparmio in termini ambientali è pari a quasi 1.350 tonnellate di CO2 in meno versate ogni anno nell’atmosfera. Peccato che sia diventato più pericoloso il sabrage, la tecnica di aprire le bottiglie con un coltello o sciabola. Per promuovere queste scelte, Pommery ha anche lanciato la cuvèe Pop Earth usando solo uve da viticultura durevole e sostenibile, bottiglia leggera e un’etichetta realizzata con carta riciclata, stampata con inchiostri ad acqua senza l’utilizzo di solventi.

BIRRA NATURALE

St Stefanus è la birra d’Abbazia che si definisce naturale al 100%. Ovviamente non pastorizzata, non filtrata e ad alta fermentazione, ha la caratteristica di essere prodotta con tre lieviti diversi, uno dei quali è il ceppo di originale dal Jerumanus dell’Abbazia Sint Stefanus che produce birra almeno dalla fine del 1200. Siamo a Gent, in Belgio, dove si usa acqua proveniente dalle fonti della zona, malto d’orzo, riso, lieviti e luppolo. Per poterne apprezzare vitalità e schiettezza, l’Abbazia consiglia di provarla dopo soli tre mesi di maturazione in bottiglia e di nuovo dopo 18 mesi e assaporare come da una St. Stefanus bionda ambrata con profumi di caramello, agrumi gialli e cannella si passi a una birra complessa e aromatica con note di scorze di agrume canditi e note tropicali tra mango e papaya e nettamente più sfaccettata e persistente al gusto.

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