Si può arrivare al Freedom Monument Sculpture Park di Montgomery, in Alabama, anche in barca, sulle stesse acque del fiume da cui lo Stato prende il nome, proprio quello su cui un tempo venivano trasportati gli schiavi per essere lasciati nella piantagione di pertinenza. Eccoci nel primo vero memoriale americano contro la schiavitù, un sito di 70 mila metri quadri sorto per sanare un’amnesia storica e per riportare alla luce testimonianze, manufatti, documenti che hanno coinvolto 10 milioni di neri.
Inaugurato lo scorso marzo, con un investimento di circa 15 milioni di dollari, è sostenuto dall’ EJI, Equal Justice Initiative, organizzazione non profit che si batte per non dimenticare la storia dello schiavismo e per promuovere la pace. Questo non è un parco come tutti gli altri. In modo sorprendente, è riuscito nella difficile impresa di essere un memoriale laddove le piantagioni sono solo un ricordo: uno dei problemi di chi da anni si occupa di black history è infatti la complessità del reperimento di fonti materiali. I campi di cotone del Sud oggi sono diventati centri commerciali, ospitano abitazioni moderne oppure – ironia della sorte – conservano le antiche case coloniche, le tracce del “padrone bianco”.
Le opere del Freedom Monument Sculpture Park
Nulla è rimasto dell’orrore che c’è stato. Si è scelto dunque di creare, proprio lungo il fiume, un parco con sculture di arte contemporanea site specific che riflettessero su questa pagina buia della storia americana. Si comincia, dicevamo, percorrendo il fiume, che un tempo era delimitato da piantagioni e campi di lavoro forzato dove gli schiavi neri arrivavano portati, a turni di 200 alla volta, su battelli a vapore. Arrivati al sito del memoriale, si passeggia in un’area boschiva tra olmi, querce, pioppi e lungo il sentiero si incontrano, una dopo l’altra, le sculture commissionate per raccontare l’indicibile: sono opere di grandi dimensioni, come The Caring Hand di Eva Oertli e Beat Huber, cinque gigantesche dita che escono dal terreno, quasi chiedendo aiuto. Poi c’è la straordinaria Brick House di Simone Leigh (Leone d’Oro nella Biennale d’Arte di Venezia di due anni fa), che rappresenta un enorme busto di una donna nera che, fiera, ci ricorda della sua esistenza.
Proseguendo ancora, appare il gruppo scultoreo dell’artista ghanese Kwame Akoto-Bamfo: sono persone, tra cui un bambino, scossi da una tempesta, mentre David Tanych ha scelto di presentare una enorme palla d’acciaio con una catena gigante dalla simbologia fin troppo evidente. Ancora: Kehinde Wiley suggerisce i linciaggi contro le persone nere venute negli anni successivi scolpendo un uomo a torso nudo e jeans mentre Brad Spencer modella i volti di una famiglia usando dei semplici mattoni con un pannello di accompagnamento che ci ricorda come piccole impronte di bambini neri ridotti in schiavitù, un tempo sfruttati per girare i mattoni mentre si asciugavano all’aria, si scorgano ancora sui muri di tanti edifici storici di varie città della zona.
Spazi come il memoriale nel Freedom Monument Sculpture Park ristabiliscono la verità storica
Vengono allora in mente le parole di Martin Luther King che, parlando a Montgomery nel lontano 1965, diceva: «I conflitti cruciali furono sempre combattuti e vinti sul suolo dell’Alabama». Sono frasi che, insieme ad altre, vengono riportare lungo il percorso di visita del memoriale. Qui è possibile leggere anche testimonianze che raramente vengono inserite nei libri di testo (anche se alcune cose stanno cambiando): all’ingresso, ad esempio, sono citate le parole dei tanti schiavi che in questi boschi erano scappati, nell’illusione di poter fuggire a un destino già segnato. Sono semplici didascalie, ma molto efficaci. Come toccante è un monumento che si trova all’interno del parco: appare come un muro inclinato, ha la forma di un libro aperto ed è fatto in cemento rivestito da una fascia di metallo in bronzo che lo fa luccicare, attirando l’attenzione dei visitatori. Qui sopra sono trascritti i 122 mila cognomi che gli schiavi neri liberati poterono finalmente registrare, terminata la guerra civile, nello storico censimento del 1870. Prima di quella data, e per i tre secoli precedenti durante i quali c’era la schiavitù, erano gli schiavisti a decidere i nomi dei neri, che all’anagrafe venivano registrati solamente con un numero.
All’interno del memoriale, tra quegli alberi dove molti di loro cercavano rifugio, l’identità dei neri che hanno subito i soprusi della schiavitù viene ribadita con un granitico monumento. «La storia delle persone nere dell’epoca sta anche nella loro capacità di amare, di fare famiglia e di intessere relazioni, sopravvivendo e superando brutalità per noi indicibili. Il monumento vuole dare dei nomi a queste storie troppo a lungo taciute. Per tutti i loro discendenti poter arrivare qui e leggere il cognome del proprio avo è importante per instaurare un legame tangibile con questa dolorosa eredità », ha dichiarato alla stampa, nei giorni dell’inaugurazione, Bryan Stevenson, 64 anni, avvocato e direttore esecutivo dell’EJI.
Stevenson è un po’ l’anima di questo luogo e il suo è un nome che forse avete già sentito: autore del libro di memorie sulla schiavitù dal titolo Just Mercy da cui è stato fatto anche un film, già anni fa a Montgomery aveva istituito il Legacy Museum di cui il nuovo parco è in qualche modo figlio. Il museo, che sorge sul sito di un ex magazzino di cotone, presenta alcuni manufatti originali e documenti, tra cui giornali dell’epoca, fotografie e anche vasi di terra che venivano lanciati duranti i frequenti linciaggi dei neri. «L’esistenza di spazi come il museo e il memoriale nel parco di sculture, che sono luoghi che ristabiliscono la verità storica, ci permette di dire: “Guarda, se possiamo farlo a Montgomery, Alabama, non c’è nessun altro posto in America che può dire di non poterlo fare”», aggiunge Stevenson. «Questo, credo, è il potere unico di questo luogo: una città e uno Stato impregnati da una lunga storia di negazione e di resistenza all’abolizione della schiavitù, alla fine colgono l’opportunità di impegnarsi per la verità, di dimostrare che un cambiamento è possibile».
Montgomery, città delle contraddizioni
Capitale dell’Alabama, crogiolo di contraddizioni, Montgomery è stata culla di una delle più numerose comunità di trafficanti di schiavi in America e anche il luogo in cui Rosa Parks compì il suo atto di coraggio, rifiutandosi di cedere il posto sull’autobus a un cittadino bianco salito dopo di lei, nel 1955 (una sua statua segna il punto esatto in cui avvenne l’episodio). Si calcola, secondo fonti storiche, che a Montgomery furono uccisi più di 4 mila neri in linciaggi razziali tra il 1877 e la metà degli anni Cinquanta e su un’altura della città un memoriale in acciaio ricorda questi eventi drammatici.
Tuttavia, nel centro di Montgomery è ancora issato un monumento che celebra la Confederazione degli Stati separatisti del Sud che combatterono per preservare la schiavitù e alcuni murales all’interno del comune cittadino includono ancora motti schiavisti dell’epoca. Con una popolazione studentesca composta al 98% da neri, le tre scuole superiori più importanti erano fino a poco tempo fa intitolate a “eroi confederati”, ma oggi non più. Un passo dopo l’altro, anche Montgomery sta imparando a fare i conti col passato e il successo all’apertura del Freedom Monument Sculpture Park ne è una dimostrazione.
© Riproduzione riservata