Supply chain: ora i nodi vengono al pettine

La pandemia ha messo in evidenza le debolezze del sistema produttivo del mondo globalizzato e adesso molti inneggiano al reshoring. Ma chi lascia la Cina non torna necessariamente a casa…

Secondo il famoso aforisma del premio Nobel Nouriel Roudini, «quando l’America starnutisce, il resto del mondo prende il raffreddore». Ora, però, bisognerebbe aggiornarlo, perché anche una febbre in Cina è molto pericolosa. Se la quarantena ci ha insegnato qualcosa di noi, la pandemia ci ha raccontato molto del nostro sistema economico, visto che il virus si è diffuso più velocemente lì che nelle strade. E lo ha fatto colpendo le supply chain e mostrando quanto dipendere quasi esclusivamente dal colosso asiatico possa essere un problema. «La Cina è uno snodo fondamentale sia per il procurement, che per il manufacturing che la distribution, che sono le tre macro-aree della supply chain. Nel momento in cui va in crisi un player come questo, è chiaro che gli impatti sono notevoli», spiega a Business People Antonio Rizzi, professore di Industrial Logistics and Supply Chain Management all’Università di Parma. «In questi anni», continua il docente, «si è costruito un mercato globalizzato, perché conveniva delocalizzare e produrre dove i costi erano inferiori. Ma questa strategia non garantisce la resilienza della supply chain, fondamentale quando questo sistema globale si inceppa. E resilienza vuol dire scorte, vuol dire una quota di fornitori localizzati e automazione per poter produrre anche senza persone».

I primi contraccolpi si sono avuti nell’automotive, di cui la città di Wuhan è un cluster, ma anche nell’elettronica e nella farmaceutica, settori che dipendono dalla componentistica e da molecole cinesi, così come nell’abbigliamento, che è più labour-intensive. Secondo Riskmethod, società che produce software per la gestione del rischio nella supply chain, tra dicembre e febbraio c’è stato un aumento del 44% del ricorso alla clausola della force majeure per giustificare un’inadempienza contrattuale senza incorrere nelle penali. Una prima debolezza delle supply chain è risultata essere la concentrazione degli ordinativi su pochi grandi supplier, in nome di una razionalizzazione che qui ha presentato il conto, come spiega Gian Battista Lazzarino, direttore Cluster Industrial di Bip, società di consulenza internazionale con sede a Milano: «Se da un punto di vista del purchasing è chiaro che affidare la fornitura a meno soggetti più qualificati garantisce efficienza ed efficacia, perché hai meno interlocutori, puoi mettere in gioco volumi più alti, puoi pretendere investimenti, dall’altro lato ti rendi più vulnerabile. E pochi fanno strategic sourcing, pratica che pure mitigherebbe il rischio».

L’effetto domino era inevitabile, visto che a Wuhan hanno una qualche sede 200 delle 500 corporation più grandi del mondo e che, secondo la tedesca Kloepfel Consulting, l’81% dei grandi gruppi industriali dipende comunque da fornitori cinesi. Perché non ci sono solo i supplier di prima fascia, ma anche quelli di seconda e di terza. Conoscere questa rete di interconnessione era fondamentale per gestire la crisi. General Motors, che usa migliaia di componenti da supplier di più livelli, è ricorsa al Geographic Information System per mappare le catene di fornitura coinvolte direttamente e indirettamente nella propria produzione. La mancanza di visibilità sui second e third-tier supplier è stato un altro elemento di vulnerabilità delle supply chain, ma non l’ultimo.

Ha giocato un ruolo nella crisi, infatti, un’altra scelta figlia della stessa cultura manageriale, quella di ridurre al minimo indispensabile lo stock di magazzino, che è un primo cuscinetto in caso di shock economico. «La fragilità del nostro sistema deriva da questa ossessione per la lean manufacturing, per il just in time – il sistema Toyota, per intenderci – che è un paradigma degli ultimi 20 anni, un mantra gestionale che produce sistemi efficienti, ma fortemente perturbabili», spiega ancora l’analista di Bip. E poi hanno pesato gli errori nella progettazione della supply chain. Secondo Lazzarino, «in ognuna di esse, per quanto ben strutturata, è insito un rischio, che bisogna saper gestire. Il problema è che questa fragilità connaturata viene spesso sottovalutata. Infatti, dando un’occhiata alle casistiche di rischio che i grandi gruppi prendono in considerazione per mitigare l’impatto sulle supply chain, si scopre che tutti i modelli sono focalizzati su eventi ricorrenti e ad alto impatto – high probability of occurrence and high impact – mentre quelli ad alto impatto ma a bassa frequenza non vengono presi in considerazione e la pandemia non compare mai».

In un mondo globalizzato, insomma, le supply chain non sono pensate per resistere a eventi globali. Qualcuno potrebbe chiedersi quanto reggerà questo grado di globalizzazione. In effetti, l’emergenza da Covid-19 ha rivelato quanto sia pericoloso dipendere dall’estero per macchinari ospedalieri, come i ventilatori, o anche per delle semplici mascherine. Per diversi osservatori, questo potrebbe innescare il cosiddetto reshoring, cioè il ritorno delle aziende che avevano delocalizzato. L’aumento del costo della manodopera cinese e i dazi imposti dagli Usa hanno innescato un processo di abbandono della Cina. Probabile che la pandemia gli metta il turbo. Sia a Washington che a Bruxelles la cosa non dispiacerebbe. L’Alliance for Prosperous America, per esempio, sostiene che rimpatriare alcune produzioni dimezzando l’import nel settore farmaceutico, che vale 128 miliardi di dollari l’anno, darebbe una spinta da 200 miliardi al pil statunitense e creerebbe 302 mila posti di lavoro. L’Unione europea, dal canto suo, a dicembre ha approvato un progetto di ricerca paneuropeo di R&D per la produzione delle batterie agli ioni di litio, essenziali per la rivoluzione dell’auto elettrica, finanziato da sette Paesi (Italia compresa) con 3,2 miliardi di euro, riducendo così la dipendenza dai player asiatici e statunitensi. Ma chi lascia la Cina non torna necessariamente a casa. Bangladesh, Thailandia e Vietnam offrono milioni di braccia a costo zero, o quasi. Anni di delocalizzazioni hanno ridotto i redditi e depresso i consumi interni. A lungo, ci si è affidati a Pechino per compensare le perdite sul mercato domestico e su quello europeo. Ma se c’è un’ultima lezione che si può apprendere da questa pandemia, è che dipendere da un solo ricco cliente è pericoloso tanto quanto dipendere da un unico fornitore.

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