Jonathan Hill, commissario Ue per la stabilità finanziaria, lo ha detto chiaro e tondo: «Le imprese europee, soprattutto quelle piccole e medie, dipendono troppo dalle banche». Per questo, alla fine del gennaio scorso, Hill ha presentato un Libro Verde, cioè un programma di riforme che hanno un obiettivo ambizioso: creare, entro il 2019, un mercato unico dei capitali per tutti i 28 Stati membri dell’Unione, dalla Gran Bretagna fino a Cipro, dal Portogallo sino alla Polonia. Lo scopo è far sì che le aziende europee trovino dei serbatoi di risorse alternativi ai tradizionali prestiti bancari che, attualmente, sono invece la loro principale fonte di finanziamento. Questa necessità di allentare il legame troppo stretto tra banche e imprese si è fatta sempre più urgente negli ultimi anni, cioè da quando molti istituti di credito del Vecchio Continente sono diventati assai restii a dare soldi in prestito alle aziende, essendo sottoposti a regole molto severe sul controllo del rischio.
LA LEZIONE AMERICANAPoco importa se da qualche mese è arrivato il quantitative easing di Mario Draghi, cioè il massiccio piano di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia, ideato dal presidente della Banca Centrale Europea (Bce) per far ripartire gli ingranaggi del credito. Queste misure, è bene ricordarlo, sono infatti dei provvedimenti straordinari che potrebbero esaurirsi nel giro di appena un anno e mezzo, se l’economia dell’Eurozona darà finalmente nuovi segni di vitalità. I problemi messi in evidenza da Hill, invece, sono strutturali e vengono da lontano. Per rendersene conto, basta guardare i dati pubblicati dalla stessa Bce e riguardanti il funding mix delle imprese europee, cioè la ripartizione delle loro fonti di finanziamento. Oltre il 31% delle risorse raccolte dalle aziende è rappresentato proprio dai prestiti bancari, con punte del 35-40% in alcuni Paesi come l’Italia e la Spagna.
LE ALTERNATIVEAI PRESTITIDELLE BANCHE
Si tratta di percentuali pari a più del doppio rispetto a quelle registrate negli Stati Uniti (14%), dove invece il sistema economico può contare su un altro polmone finanziario: un ricco e dinamico mercato dei capitali, fatto di fondi di private equity, società di venture capital, business angel e altri investitori istituzionali pronti a sostenere le aziende più promettenti. «Se un giovane ha una buona idea imprenditoriale nella Silicon Valley», ha detto Hill, «non ha difficoltà a trovare un venture capitalist di New York disposto a sostenerlo». Dunque, afferma in sostanza il commissario Ue, perché non proviamo a creare anche in Europa lo stesso ambiente che c’è dall’altra parte dell’oceano? Perché non consentire a un grande investitore istituzionale con sede a Londra o a Francoforte di investire facilmente in qualche start up o in qualche piccola e media azienda che sta a Cipro, nel Sud Italia, in Grecia o in Portogallo? Raggiungere questo obiettivo, purtroppo, non sarà un’impresa semplice. Oggi, infatti, i 28 Stati membri dell’Ue si presentano come un mosaico assai variegato, con differenti regole fiscali, societarie e finanziarie. Senza contare, poi, l’esistenza di notevoli barriere culturali e linguistiche che impediscono ancora agli investitori e agli imprenditori europei residenti in Paesi diversi di dialogare fra loro e fare affari con la stessa semplicità degli americani.
15 ANNI DI RIFORMELe riforme necessarie a creare il mercato unico europeo dei capitali sono ancora tutte da scrivere, poiché il Libro Verde di Hill prevede inizialmente una fase di consultazione di tre mesi, in cui saranno raccolte varie proposte degli addetti ai lavori. Di sicuro, le riforme prossime venture comporteranno in Italia alcune modifiche alla legge Draghi, il testo unico della finanza (Tuf) approvato nel 1998, quando l’attuale presidente della Bce era direttore generale del Tesoro. Tra i provvedimenti ipotizzati, per esempio, ci sono alcune semplificazioni normative per le quotazioni in Borsa delle piccole imprese e la creazione di un prospetto uguale in tutti gli Stati Ue per le operazioni di collocamento di titoli sul mercato.
– Il serbatoio dei fondi Europei
– Dirottiamo il risparmio verso le pmi
A ben guardare, tuttavia, in Italia abbiamo già avuto alcune importanti modifiche legislative che hanno aperto la strada a nuove forme di finanziamento per le imprese, alternative a quelle bancarie. Giancarlo Giudici, docente di Finanza aziendale al Politecnico di Milano, cita innanzitutto l’introduzione dei mini-bond, che ha permesso anche alle piccole e medie aziende non quotate in Borsa di emettere prestiti obbligazionari (che oggi, anche per le pmi, sono equiparati per legge al credito bancario, sia dal punto di vista fiscale che sotto il profilo della deducibilità dei costi). «Tra il 2013 e la fine del 2014, le imprese che hanno collocato mini-bond in Italia sono state in totale 86, di cui 34 sono identificabili come pmi», dice Giudici, che dirige anche un osservatorio creato dalla School of Management del Politecnico su queste nuove forme di emissioni obbligazionarie, il cui valore complessivo è stato finora di 858 milioni di euro. Certo, si tratta ancora di piccole cifre se messe a confrontate alle decine e decine di miliardi di euro di prestiti concessi ogni anno dalle banche alle imprese, tuttavia all’orizzonte si intravedono dei segnali molto incoraggianti. «Il 2015 è partito molto bene», dice infatti Giudici, «e ci sono state già diverse emissioni nei primi mesi dell’anno». Con queste premesse, secondo il professore del Politecnico, ci son buone probabilità che i mini-bond si rafforzino ancora in futuro e si affermino come nuovo canale di raccolta dei capitali, anche grazie alla nascita di fondi chiusi specializzati nell’investimento in questo tipo di obbligazioni (i cosiddetti fondi di private debt).
LA STRADA IN SALITA DEL CROWDFUNDINGL’analisi ottimistica di Giudici sul futuro dei mini-bond è invece difficilmente estendibile ad altre forme di finanziamento per le imprese che oggi stentano a decollare. Nel nostro Paese, un ruolo importante è svolto senza dubbio dai fondi di private equity e di venture capital che tuttavia, con 3,5 miliardi di investimenti effettuati in Italia nel 2014, non possono certo candidarsi a rimpiazzare da soli il ruolo svolto dal credito bancario. Stesso discorso per l’Aim, il mercato azionario creato nel 2012 da Borsa Italiana e riservato esclusivamente alle piccole e medie imprese. Nel 2014, c’è stata una forte crescita delle quotazioni su questo listino, ma i numeri sono ancora modesti, vista la presenza di appena una sessantina di aziende, che hanno raccolto nel complesso poco più di 450 milioni di euro di capitali. Un vero e proprio cammino a singhiozzo, invece, si registra in Italia per la forma di finanziamento più innovativa in questo momento. Si tratta dell’equity crowdfunding, una raccolta di fondi su Internet con cui un’azienda mette in vetrina sul Web un progetto imprenditoriale, chiedendo a tutti gli internauti di sostenerlo economicamente e di diventare azionisti della società con il versamento di una somma di denaro, anche di piccolo importo. L’Italia è stata tra i primi Paesi ad approvare meritoriamente un’apposita normativa che regola tutte le operazioni di questo tipo lanciate sul territorio nazionale, in modo da evitare e prevenire truffe o sollecitazioni abusive del pubblico risparmio. Le regole stabilite però, si sono rivelate finora un po’ troppo stringenti: secondo la legge, per esempio, almeno il 5% dei fondi rastrellati sul Web con il crowdfunding deve provenire (per ogni singolo progetto imprenditoriale) da investitori qualificati, come le banche, le sim o dai fondi specializzati nel sostegno alle start up. E così, intrappolato nella maglie di questa normativa, l’equity crowdfunding made in Italy è stato finora un fiasco, con appena cinque progetti finanziati, per un totale di 1,3 milioni di euro raccolti. Si tratta di numeri letteralmente ridicoli se confrontati a quelli degli Stati Uniti, dove il crowdfunding valeva più di 5 miliardi di dollari già alla fine de 2013. Nel processo di creazione del mercato unico dei capitali, dunque, il commissario europeo Hill dovrà probabilmente far tesoro degli insegnamenti che arrivano dall’altra sponda dell’Atlantico ed evitare invece gli errori già commessi in Italia, cioè la tendenza a voler introdurre troppi vincoli e troppe regole, che finiscono poi per rendere inutili anche le misure attuate con le migliori intenzioni. Tagliare il cordone ombelicale che lega oggi le imprese alle banche è già di per sé un’impresa difficile. Meglio dunque non complicarla ancora di più.
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