Altro che Bitcoin: le monete alternative sono sempre esistite

Oggi Bitcoin & Co. sono al centro dell’attenzione, in realtà valute in grado di sviluppare un’economia parallela e più prospera di quella ufficiale esistono già da tempo. Ecco quali sono e come funzionano

A voler fare un indovinello, si potrebbe dire che sono quasi ovunque ma chi non le usa non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Sono le monete locali o complementari, valute che vengono cre­ate in un territorio circoscritto per ridare slan­cio a un’economia fiaccata dalla crisi. Difficile dire quante sia­no. Cinque anni fa, ne erano state censite 38 solo in Italia. Oggi non si sa a che cifra siamo arrivati. Si conoscono le più note: il Sardex e le sue filiazioni in 11 regioni italiane, poi c’è l’Arcipela­go Šcec, il Bus (Buono di utilità sociale) di Reggio Emilia, lo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo) di Riace. Ma se si var­cano i confini, si scopre che ce ne sono quattro nella sola Lon­dra, una trentina in Francia e che in tutto il mondo pare ce ne si­ano più di 5 mila.

Un errore da non fare, è quello di pensare che si tratti di una mania recente che in qualche modo si lega all’eredità di crisi la­sciata dalla globalizzazione e al suo reflusso sovranista, perché – in realtà – fino a quando, in tempi recenti, lo Stato non riven­dicò per sé il monopolio sull’emissione della moneta, la convi­venza tra più valute nello stesso territorio era la regola. «In tutti i periodi di crisi c’è stato un proliferare di monete locali e com­plementari, in particolare nel periodo tra le due guerre. Il dato storico significativo è che nei sistemi monetari di tutta Europa, almeno fino ai primi dell’800, si è sempre fatta una distinzione tra la moneta interna usata per gli scambi locali, e quella esterna per il commercio di lunga distanza», racconta a Business Peo­ple il professor Luca Fantacci, docente di Storia istituzioni e cri­si del sistema finanziario globale alla Bocconi e autore, con Mas­simo Cotto, de La moneta, storia di un’istituzione mancata. «Sono monete complementari», continua il docente, «nel senso che svolgono funzioni diverse e si completano a vicenda. Per ogni moneta, però, si pone il problema di non crearne troppa, ma nemmeno troppo poca».

A dosar male l’offerta monetaria, si rischiano effetti inflattivi, se si apre troppo il rubinetto, o di provocare una crisi di liquidità, se lo si stringe oltremodo. Chi la controlla, quindi? «Qualcuno che gioca a fare il piccolo banchiere centrale e, quindi, decide in maniera arbitraria quanta crearne», sintetizza Fantacci. Que­sto non vuol dire che la creazione di moneta non possa essere gestita in maniera sapiente. «La formula che dà maggiori garan­zie di stabilità, è quella adottata dai sistemi di compensazione come il Sardex o come il Wir, in cui la quantità di moneta non è definita in maniera esogena da un’autorità ma viene sviluppata dal volume degli scambi, perché la creazione monetaria avviene nella forma di un’apertura di credito che ha un carattere squi­sitamente commerciale. È una moneta che serve per consenti­re ai beni e ai servizi di circolare, non creata a prescindere dagli scambi dell’economia reale, ma a misura di quest’ultima», con­clude il professore.

Il Sardex appena citato è il primo circuito di credito commer­ciale creato in Italia. Nato nel 2007 in Sardegna, è diventato un caso molto studiato e imitato, replicato in altre 11 regioni, dal­la Val d’Aosta (Valdex) alla Campania (Felix) passando per l’E­milia-Romagna (Liberex), non sempre con la stessa fortuna. Nel 2017, le transazioni in queste valute (oltre 260 mila nel 2016) han­no prodotto un valore di oltre cento milioni di euro. Un buon successo lo sta avendo il suo “clone” laziale. «Il Tibex è una moneta complementare, ma è anche una modalità di pa­gamento e contemporaneamente è un circuito che lega picco­le e medie imprese laziali e professionisti che si scambiano beni e servizi», spiega Giuseppe Rotundo, direttore sviluppo del net­work. Perché non limitarsi a usare i normali euro? Perché sono proprio quelli che mancano in una situazione di crisi di li­quidità, quando una banca non apre linee di credito, quando i clienti, pubblica amministrazione inclusa, non saldano, quando i tassi di interessi diventano proibitivi. A quel punto, un’azien­da che avrebbe tutte le carte in regola per continuare a operare, deve fermarsi. Il Tibex serve a impedire questo esito.

«I membri del circuito, assisiti nel marketing e networking, si mettono a disposizione della rete, producendo beni o offrendo servizi che diventano crediti o debiti in Tibex. In questo modo si finanziano reciprocamente senza interessi, trasformano il pro­prio potenziale inespresso in liquidità aggiuntiva e abbattono parte dei propri costi aziendali, migliorando il proprio benes­sere e quello della comunità in cui operano», conclude Rotun­do. In tre anni, il sistema ha generato circa otto milioni di Tibex, 7 mila operazioni commerciali, con una crescita nel secondo tri­mestre del 2018 del 70% anno su anno, per un valore passato dai 550 mila a 930 mila euro.

Numeri decisamente impressionanti furono quelli re­gistrati con l’esperimento Simec (Simbolo econome­trico), con il quale però si cambia periodo e tipolo­gia di moneta. Per le autorità, non si trattava infatti di una valuta complementare ma alternativa, che cioè sfidava il mo­nopolio statale. I Simec circolarono a Guardiagrele, un paesino abruzzese, nell’estate del 2000 e produssero un boom economi­co inatteso, con l’equivalente di cinque miliar­di di lire spesi in un mese, finché non si mos­sero Guardia di Finanza e Procura di Chieti, su segnalazione della Banca d’Italia. Dietro questa valuta, c’era Giacinto Auriti, giurista, tra i fonda­tori dell’Università di Teramo, teorico della mo­neta del popolo. «Auriti sosteneva che, dal mo­mento che ciò che dà valore al denaro è il fatto che tutti lo accettano, il potere di crearlo non poteva che spettare al popolo. Lui sfidava quella che chiamava l’usurocrazia, cioè il potere di chi si arricchisce prestando denaro», racconta Roc­co Carbone, uno dei suoi più stretti collaborato­ri, l’uomo che lo aiutava a gestire il borsino e che oggi ne tiene viva la memoria, continuando a di­vulgarne gli insegnamenti.

Il porre l’accento sulla valorizzazione dell’eco­nomia reale a detrimento di quella finanziaria speculativa, è un tratto comune alle varie espe­rienze, dall’Arcipelago Šcec italiano al Banco Palmas di Fortaleza, in Brasile, passando per il Bristol Pound, lanciato nel 2012, che oggi è la seconda valuta più diffusa del Regno Unito. Anche qui, l’iniezione di un flusso addizionale di liquidità, slegato dalle dinamiche dei tassi di interes­se, spendibile solo in una determinata area, ha avuto un impatto molto forte sull’economia lo­cale, con evidenti effetti moltiplicatori. In breve, i consumi addi­zionali hanno prodotto redditi aggiuntivi che a loro volta sono diventati nuovi consumi. In cinque anni, ha generato scambi per cinque milioni di sterline, anche se i suoi critici sostengono che non abbia prodotto effetti sulla produzione locale. Ma questo è un po’ il destino di esperimenti valutari che avvengono in co­munità piccole in cui la maggior parte dei beni viene da fuori. Queste monete hanno un alto tasso di mortalità ma alcuni espe­rimenti hanno avuto vita lunga. È il caso del WIR, valuta svizze­ra creata negli anni ‘30 e che oggi è un circuito che lega oltre 68 mila piccole e medie imprese e produce una fetta non trascura­bile del Pil elvetico. Le monete complementari non sempre si ri­velano un successo, spesso sono solo iniziative velleitarie, ma si è visto che possono contribuire a riaccendere un’economia. Ca­pire come funzionano può essere non solo utile, ma addirittu­ra benefico.

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