Marco Panzetti, 53 anni, di cui almeno 35 trascorsi nel mondo del volontariato, di sicuro non se l’aspettava. Anzi, neppure sapeva di essere candidato a ricevere l’ultimo Fund Raising Award, il premio annuale dedicato a una figura di manager che sta diventando sempre più importante nel settore dell’associazionismo e del no profit. Si tratta del fundraiser, un professionista responsabile della raccolta di tutte le risorse finanziarie che permettono alle organizzazioni senza fini di lucro (le onlus) di portare avanti i propri progetti e le proprie attività. A candidare Panzetti al premio è stato un gruppo di amici, che ha voluto così dare il giusto riconoscimento al suo impegno nella raccolta dei fondi per la Comunità Papa Giovanni XXIII, l’associazione fondata in Romagna nei primi anni ‘70 dal compianto Don Oreste Benzi e attiva oggi in ben 20 Paesi in tutto il mondo, dove gestisce centinaia di strutture di accoglienza. «Non posso negare di essere comunque soddisfatto del premio ricevuto», ammette Panzetti, «perché rappresenta un importante riconoscimento per la storia della nostra comunità e per il mio lungo impegno professionale». Quello di Panzetti, infatti, non è proprio un mestiere facilissimo, almeno in un Paese come l’Italia dove ci sono ancora troppi pregiudizi e luoghi comuni che circondano la figura del fundraiser. Ne è convinto il professor Valerio Melandri, docente di economia aziendale all’Università di Bologna (presso la sede distaccata di Forlì) e direttore del primo Master universitario in Fundraising per gli enti pubblici e il no profit. «È innegabile che questa figura professionale abbia fatto passi da gigante negli ultimi dieci anni», dice Melandri, «tuttavia, è ancora oggi penalizzata da un moralismo ingiustificato, che ne ha impedito lo sviluppo per molto tempo». In particolare, secondo il professore, l’opinione pubblica italiana non valuta mai a dovere i risultati che i fundraiser e le loro organizzazioni sono in grado di raggiungere o i benefici che portano alla collettività. Tutta l’attenzione si concentra sempre sul “lato dei soldi”, cioè su quante risorse movimentano i fundraiser, quanto guadagnano di stipendio e quanto spendono nelle campagne promozionali e di marketing. «C’è una sorta di pregiudizio puritano», aggiunge ancora Melandri, «secondo il quale, per i dirigenti delle organizzazioni no profit, la capacità di gestire una quantità ingente di soldi è di per sé sempre un peccato, a prescindere dal modo in cui le risorse vengono impiegate». Poco importa se la raccolta dei fondi richiede inevitabilmente dei costi che, come sottolinea Panzetti, difficilmente scendono sotto il 25% delle risorse totali e servono soprattutto per realizzare impegnative campagne di marketing. Per molti italiani, le associazioni no profit devono essere sempre e comunque “povere di soldi”, indipendentemente da quello che fanno e da come lo fanno. Per questo la figura del fundraiser, che è un professionista molto qualificato, oggi risulta assai penalizzata dal punto di vista retributivo. Esempio: il responsabile della raccolta dei fondi di una grande onlus internazionale, che gestisce un budget di centinaia di milioni di euro, di solito non guadagna più di 100 o 120 mila euro all’anno, circa la metà rispetto a un manager con uguale qualifica che lavora invece in un’azienda privata. «Chi sceglie il nostro mestiere non lo fa certo per diventare ricco», dice Luciano Zanin, presidente di Assif, l’associazione italiana fundraiser. «La spinta iniziale a intraprendere la carriera deve essere comunque di tipo etico», gli fa eco Panzetti, «bisogna, cioè, credere molto nell’importanza del no profit e nella causa perseguita dall’organizzazione per cui si lavora». Secondo Zanin, però, a tutto c’è un limite: non si può continuare a penalizzare troppo una figura professionale così qualificata come il fundraiser, non riconoscendogli il giusto e legittimo compenso per il lavoro che svolge. Anche perché, alla lunga, questa visione miope finirà per avere effetti deleteri: spesso, infatti, le migliori intelligenze ed energie professionali scelgono di allontanarsi dal mondo del no profit (pur apprezzandone lo spirito), perché non si sentono abbastanza valorizzate. Eppure, nonostante queste difficoltà, il comparto sta crescendo d’importanza e assumendo sempre maggiore visibilità in Italia. Ogni anno, gli addetti di questo settore si riuniscono nel tradizionale appuntamento del Festival del Fundraising, che ormai è giunto alla quinta edizione e ha visto nel maggio scorso la partecipazione di centinaia di persone, tra cui molti ospiti internazionali. C’è poi l’associazione di categoria Assif che ha ormai circa 400 iscritti: un numero ancora esiguo se rapportato ai 35 mila membri dell’analoga organizzazione statunitense, ma comunque in crescita costante da anni. «Inoltre», aggiunge ancora Melandri, «non va dimenticato che la crisi economica sta dando un contributo a far crescere l’attenzione verso la figura del fundraiser». Quando le risorse finanziarie scarseggiano, come purtroppo avviene oggi, diventa infatti sempre più importante dotarsi di manager in grado di ottimizzare i risultati della raccolta dei fondi. Peccato, però, che non tutte le organizzazioni non profit abbiano compreso a pieno l’importanza di queste strategie. «In molte piccole realtà dell’associazionismo ci si affida un po’ all’improvvisazione», dice Zanin, «e spesso non esiste neppure una figura professionale interamente dedicata alle attività di fundraising». L’universo delle onlus italiane, infatti, è assai variegato e complesso e vede la presenza senza di molte micro-organizzazioni che fanno fatica a sposare le logiche di una raccolta dei fondi moderna ed efficiente. A parte alcune “multinazionali”, come ad esempio Save the Children, Telethon o prestigiosi nomi italiani quali la Lega del filo d’Oro e l’Airc (l’associazione per la ricerca sul cancro), è difficile trovare a sud delle Alpi organizzazioni no profit di una certa dimensione, che operano in maniera ben strutturata e godono di una certa visibilità presso il grande pubblico. Senza dimenticare, poi, che il valore complessivo delle risorse non è proprio gigantesco: secondo alcune stime (frutto di una rielaborazione dei dati diffusi dall’Agenzia delle Entrate), l’ammontare delle donazioni effettuate in Italia si aggira complessivamente sui 5-6 miliardi di euro all’anno: una cifra non trascurabile, ma neppure astronomica. Nonostante queste difficoltà strutturali esistenti nel nostro Paese, la figura del fundraiser si sta sempre di più arricchendo di nuove e interessanti caratteristiche. La tendenza degli ultimi anni, secondo Melandri, è la nascita di due professionalità distinte e parallele, che muovono gli ingranaggi della raccolta dei fondi e si completano l’una con l’altra. La prima è rappresentata dal fundraiser vero e proprio, che gestisce direttamente i rapporti con i donatori e i finanziatori. Accanto a questa figura più tradizionale, si sta facendo strada un piccolo esercito di tecnici del fundraising, cioè professionisti che lavorano più che altro dietro le quinte. Organizzano le campagne promozionali e le strategie di marketing, attraverso tutti i mezzi possibili, dalla stampa alla televisione, dagli eventi sul territorio sino ai contatti via e-mail, con l’obiettivo di ottimizzare i risultati ottenuti, in rapporto ovviamente alle risorse disponibili. Com’è facilmente intuibile, il fundraiser più tradizionale deve possedere una dote che da sempre caratterizza questa professione: la capacità di comunicare e instaurare relazioni. Per il tecnico del fundraising sono invece necessarie altre qualità, come il saper elaborare strategie o pianificare il proprio lavoro e quello degli altri, con una notevole visione d’insieme. Si tratta di capacità professionali che spesso richiedono un solido background culturale e universitario alle spalle. Non a caso, ben l’82% dei fundraiser italiani possiede una laurea o addirittura un master (secondo una recente indagine effettuata dall’Assif, i cui risultati sono riportati nella tabella in pagina).
DONAZIONI IN TEMPO DI CRISI | |