Arte: un mercato più digitale e trasparente

Così si presenta oggi il mercato dell’arte secondo Guido Guerzoni, professore aggiunto di Museum Management all’Università Bocconi

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L’intervista a Guido Guerzoni è parte di

Un mercato fatto da arte

Guido Guerzoni è manager, progettista e docente universitario all’Università Bocconi di Milano e da 25 anni si occupa in Italia e all’estero di gestione museale, progettazione e pianificazione culturale e produzione editoriale e multimediale: chiediamo a lui di fare il punto della situazione sul volubile mercato dell’arte.

Professore, in un momento caratterizzato dalla stagnazione in molti settori, l’arte sembra una felice eccezione: perché mai?
Direi che siamo ancora sotto l’“effetto rebound”, cioè di rimbalzo, dopo i due anni pandemici in cui il mercato dell’arte è stato congelato.

Che cosa prevede per il futuro?
Difficile fare previsioni: i buyers cinesi, che sono molto importanti per il settore, sono tornati in gioco solo di recente. Questo periodo ha segnato anche profondi cambiamenti: i due anni di fermo delle fiere e delle vendite in presenza hanno forzato le gallerie e le case d’asta, anche le più piccole, a realizzare cataloghi online e ad attuare nuove strategie commerciali che hanno permesso di raggiungere un pubblico più ampio, e spesso anche più giovane, di collezionisti. L’intero comparto ha poi dovuto rendersi più trasparente.

Che cosa intende?
Fino a poco tempo fa per un gallerista era quasi inconcepibile dichiarare pubblicamente i prezzi delle opere d’arte in vendita: la trattativa avveniva in sede, con il cliente, a porte chiuse. Con il catalogo online non è più possibile agire in questo modo: i nuovi buyer non vogliono nascondersi, e si aspettano una trasparenza nei prezzi simile a quella che esiste nelle transazioni di altre commodity di lusso, come il settore dei gioielli e degli orologi per esempio.

Qual è il ruolo dell’Italia sul mercato?
Il nostro Paese è purtroppo periferico da 20 anni rispetto al mercato globale dell’arte: ormai contiamo meno dell’1,3% sul totale delle compravendite e anche se si analizzano i fatturati, osservando i valori medi di transazione per singola vendita, è evidente che siamo davvero lontani dalle medie internazionali. Parte della responsabilità è di una normativa dissennata, risalente ancora al 1939, che penalizza con l’istituto del vincolo e della notifica la compravendita di oggetti d’arte che possono, se ritenuti di “interesse nazionale”, essere sottoposti al vincolo della tutela della soprintendenza e dunque alienati all’acquirente. Oltre a una tassazione molto più elevata rispetto ad altri Paesi, abbiamo anche un dispositivo legislativo vetusto che penalizza il commercio onesto di opere d’arte sul nostro territorio, a favore di chi cerca scappatoie.

L’Europa è ancora il centro degli scambi dell’art world?
Il Vecchio Continente è sempre vivace, ma non più come tre decenni fa. Oggi la scena dell’arte è policentrica e molteplice, e l’Europa non è più egemonica nemmeno nella formazione del gusto estetico. Abbiamo collezionisti sempre più numerosi e con portafogli pesanti dai Paesi del Golfo, dalla Cina, dalla Corea, dall’Indonesia, dall’India. Questi nuovi milionari prediligono opere della tradizione culturale a loro affine, si buttano spesso sui patrimoni postcoloniali, come nel caso di diversi magnati indiani che hanno fatto razzia alle aste di opere d’arte locali portate in Europa sotto la dominazione inglese. I cari Old Masters europei, i maestri della storia dell’arte, specie quelli ottocenteschi, non fanno davvero più breccia sul mercato. Cresce invece l’interesse per l’arte contemporanea e digitale, con un collezionismo giovane che punta su artisti emergenti che operano nel settore dell’arte intangibile, come i video, le performance e gli Nft.

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