Smart working? Sì, no, forse…

Mentre alcune aziende stanno rivedendo i loro programmi di far lavorare i dipendenti a distanza, il governo del Regno Unito intende renderlo addirittura un diritto. Entrambe le posizioni vantano convinti sostenitori e pervicaci detrattori. Ne abbiamo incontrati due

Smart working? Sì, no, forse...

Sembrava cosa fatta, e invece… Parliamo di smart working, scelta forzata all’insorgere della pandemia, e poi soluzione adottata su larghissima scala, in grado di mettere d’accordo tutti, imprenditori e lavoratori. Rispettosa dell’ambiente, salutare per i costi di gestione delle aziende, amica del traffico cittadino e dei borghi a rischio spopolamento. I dati raccolti in questi anni hanno sempre puntato verso l’alto, evidenziando miglioramenti generali difficili da ignorare. Eppure, la paura del contagio ha lasciato il posto ad altri timori.

Alcuni settori, come la tecnologia, i servizi finanziari e la consulenza, hanno adottato modelli ibridi o hanno richiesto un ritorno completo in ufficio. Come negli Usa – per esempio – hanno fatto Google, Bank of America, Facebook, Amazon. E in Italia Mediobanca, Stellantis, Luxottica, Intesa Sanpaolo, Eni solo per fare nomi di una certa risonanza. Tutto ciò a dispetto delle conferme sulla bontà dell’istituto, ribadite recentemente dall’ultimo rapporto del Politecnico di Milano.

Smart working:

Chi ci ripensa

Lorenzo Cavalieri, fondatore di Sparring Group

Dati (positivi) alla mano, c’è chi solleva dubbi sull’efficacia a lungo andare del ricorso allo smart working tout court, senza una riflessione seria sui pro (che sono sotto gli occhi di tutti) ma anche su alcuni “contro”, che forse per diversi motivi vengono nascosti sotto al tappeto, come se non ci fossero ancora le condizioni per poterne parlare apertamente e con serenità. Lui è Lorenzo Cavalieri, fondatore di Sparring Group, una realtà che si occupa di coaching e più in generale di sviluppo del capitale umano. E proprio dal capitale umano parte la riflessione che invita a riconsiderare le tinte rosee che finora hanno tracciato i contorni del lavoro a distanza. Su quale scoglio si è infranta l’ondata di entusiasmo sullo smart working? Ha iniziato Amazon notando che in smart working c’è la tendenza a fare molte riunioni, le “call”, perché da remoto non si ha la percezione dei relativi costi. È facile organizzarle, e finisce che durano troppo, si tende a convocare più persone del necessario e il livello di attenzione è mediamente basso, anche perché manca il controllo visivo. In realtà, tutto questo un costo ce l’ha. Secondariamente, stare fisicamente insieme presenta delle caratteristiche non sostituibili con le comunicazioni a distanza, cioè, conoscere il collega, parlarci dal vivo. Valorizzando anche la comunicazione non verbale si arriva a un livello di approfondimento nei rapporti interpersonali che aiuta molto il lavoro dal vivo. L’impoverimento dei rapporti umani in ambito professionale va a incidere nei meccanismi di trasmissione del sapere. In videoconferenza posso mandare un pdf, scaricare il manuale, insegnare attraverso un tutorial e così via. Tuttavia, molte competenze si ottengono osservando e imitando, rubando il lavoro con gli occhi, per così dire. Quindi, anche nei processi di trasmissione del know how con lo smart working, viene meno una parte informale del trasferimento di sapere che è preziosa e importante.

Ieri le aziende lodavano lo smart come una nuova primavera della produttività, oggi richiamano in sede il personale. Come è possibile conciliare queste due dimensioni?
Si sta mettendo in discussione l’ideale dello smart working come bene assoluto, non come istituto. I vantaggi sono evidenti, si lavora in un ambiente più confortevole, si risparmiano ore di tempo, questo fa sentire tutti più collaborativi. Ora semplicemente sta emergendo il fatto che non è un pasto gratis, e quindi probabilmente amministratori delegati e manager ragionano su come trovare una sintesi a seconda del settore e della tipologia di azienda. In questi ultimi mesi sta venendo fuori anche qualche piccola criticità rispetto agli entusiasmi passati e qualche azienda comincia a riconsiderare se non l’istituto, il suo impatto sulla settimana lavorativa. L’estremizzazione del lavoro da remoto ha portato a poca interazione con il cuore dell’azienda, e il cuore è sempre dove si trovano le persone.

Si sta creando una sorta di conflitto tra lavoratori che si aspettano lo smart working e datori sempre più restii a concederlo?
Dal mio punto di vista c’è l’idea che in qualità di datore devi prevedere lo smart working, perché è un po’ di moda e perché le persone lo chiedono. Ma diversi manager lo vivono male, sanno che devono garantirlo, ma poi penalizzano sulle opportunità di carriera chi lo fa. Un’azienda che garantisce lo smart working appare virtuosa agli occhi del mondo, ma la realtà non è sempre così rosea. Il 90% dei manager confessa di preferire le persone che vengono in presenza, sono quelle che crescono di più. È soprattutto un problema culturale e generazionale, chi ha difficoltà a sposare lo smart working è perché è entrato nel mondo del lavoro in un altro contesto. Ma nessuno lo ammetterebbe mai in un’intervista.

All’indomani della pandemia, quando la gente ricominciava a entrare in ufficio, si discuteva della necessità di cambiare i modelli manageriali. Secondo lei il manager 2.0 è realtà?
Lentamente ma inesorabilmente ci stiamo arrivando. Sopravvive a macchia di leopardo l’impostazione per cui non basta centrare gli obiettivi, bisogna essere presenti. Ma è una forma di ansia, di bisogno di controllo. E l’idea – che in parte condivido – che quando siamo insieme a lavorare dal vivo riusciamo a dirci le cose di più e meglio. È un retaggio che sopravvive spesso nelle piccole e medie aziende, nella grande impresa il modello manageriale del lavoro per obiettivi è quello che va per la maggiore.

Che tipo di impostazione date ai manager che si rivolgono a voi relativamente all’approccio sullo smart working? Qual è la via ideale?
Potenziamo le competenze comunicative dei manager, perché per far funzionare davvero lo smart working devono essere bravissimi a ricevere i feedback a distanza; quindi, è importante trovare tanti momenti di dialogo con il personale. La comunicazione deve essere di qualità, devono esserci appuntamenti frequenti e mirati dove scambiarsi feedback. Attenzione però, perché altrettanta qualità deve esserci nella restituzione degli stessi. Lavoriamo molto su questo tema, perché andando in giro per le aziende di tutta Italia ci siamo resi conto che c’è tanto non detto, zone d’ombra, poca trasparenza. Dobbiamo imparare a dirci tutto e dircelo bene in modo rispettoso e non giudicante.

Il futuro dello smart working sarà questo oppure ci saranno ancora delle ritirate o delle sorprese?
Io credo che nonostante tutto viviamo una fase di consolidamento dello smart working. Ci stiamo rendendo conto di cosa ci dà, ma anche di cosa ci toglie. Inutile nascondersi dietro a un dito: lavorando da remoto qualcosa ce la perdiamo. Cerchiamo di compensare, per esempio, con la qualità della comunicazione, con la cultura della delega e con un lavoro dei manager sulla propria ansia. In particolare, nell’imprenditoria media italiana in cui il tema dello smart working proprio non è stato digerito bene.

Chi persevera

Laura Venturini, Ceo di Quindo

C’è invece chi crede nello smart ora ancor più di prima. È il caso di Laura Venturini, giovane imprenditrice digital, Ceo di Quindo, società Seo specialist che è nata in smart e che sempre sarà gestita totalmente in smart, forte di un team iperconnesso e ipermotivato.

Amazon e molte delle grandi aziende digital stanno facendo marcia indietro. Non Laura Venturini. Lo smart working non è uguale per tutti?
Per noi è un plus il fatto di aver sempre gestito i processi in smart, perché ci permette di aiutare i clienti che magari hanno difficoltà, ma anche perché non tutti i nostri clienti operano solo sul territorio nazionale. Dal mio punto di vista, presto più attenzione alle pause, cioè da quest’anno ho inserito delle ore bloccate sul calendario, che devono essere dedicate a sé stessi o all’aggiornamento e non produttive in senso stretto, perché se non hai modo di interfacciarti con i tuoi colleghi un po’ ti perdi, quindi presto grandissima attenzione nello stimolare le persone a lavorare di più insieme.

Quanto è difficile convincere i vostri clienti che lo smart è ancora una risorsa se gestito nel modo giusto?
Per la verità il problema ce l’abbiamo tendenzialmente con manager uomini nella fascia tra i 50 e i 60 anni, che sono molto ostativi da questo punto di vista. La cosa più divertente che ci è successa in questi ultimi anni è che noi ci interfacciamo spesso con marketing manager di aziende, anche strutturate, che poi mi scrivono per chiedermi se c’è possibilità di lavorare con noi. Il management più giovane vede nello smart soprattutto un’opportunità.

Gender gap e maternità, lo smart può essere una soluzione per affrontare efficacemente le questioni sulla parità di genere in ambito lavorativo?
In questi ultimi mesi mi è capitato di ricevere curricula di donne che, a causa della maternità, cercano opportunità più flessibili, ma anche di 35-40enni che dopo tante esperienze di lavoro sentono il bisogno di gestire in modo diverso il tempo. Non è vero che lo smart working è un’esigenza solo della Gen Z, nel senso che loro lo danno per assodato, ma non sono gli unici a chiederlo. Oggi per le grandi aziende richiamare i dipendenti in sede può significare due cose. O il fallimento dei nuovi processi di lavoro. Oppure – ed è un po’ triste ma reale – una modalità per tagliare il personale, perché nel momento in cui io obbligo a rientrare c’è anche chi decide di licenziarsi, soprattutto chi nel frattempo ha scelto di trasferirsi in altre città. Questo processo però seleziona chi si uniforma alla mentalità “vintage”, non necessariamente le risorse migliori.

L’AI potrebbe aiutare a gestire uno smart working 2.0?
Grazie all’AI sono oggi disponibili una serie di strumenti super intelligenti che, installati su computer aziendali, permettono in automatico di vedere quante ore le persone passano sulle varie applicazioni. Paradossalmente, si può essere maniaci del controllo come negli anni 80, ma in modo smart e ipereconomico. Quindi, è veramente solo una questione di mentalità. L’AI è uno strumento pazzesco per dirigere le aziende, è uno strumento che ti dà un output perfetto se gli chiedi le cose in modo giusto. Quindi, se noi imparassimo con l’intelligenza artificiale a dare le informazioni, a dire esattamente cosa ci aspettiamo, probabilmente riusciremo a gestire meglio le nostre persone.

Secondo lei, la dimensione di un’azienda può influire sull’apprendimento di questo tipo di processo?
In parte, nel senso che un’azienda piccola in teoria è più flessibile, ma le grandi aziende sono strutturate in reparti, e ogni reparto può gestire un team remoto, che a sua volta si coordina con gli altri. Di contro, nelle piccole aziende la flessibilità può essere un ostacolo, nel senso che se in una multinazionale un reparto non funziona si può ovviare, in una piccola azienda se gli ingranaggi si inceppano magari è un po’ più complicato.

Parliamo di produttività: con lo smart working aumenta – come si è insistito in questi anni – oppure è stato un fuoco di paglia?
C’è un problema di strumenti, non basta metter le persone in smart working per renderle più produttive. Le persone vanno motivate, guidate per instaurare anche tutto un sistema virtuoso di feedback. Un conto è l’azienda che nasce smart e, quindi, sceglie le persone che hanno determinate caratteristiche. Ma, se io divento un’azienda smart, ho bisogno di creare anche le soft skill per il mio team che sono legate proprio a come organizzare la giornata, gestire le pause e le mansioni in modo autonomo. Ci sta che alcune persone magari a lungo andare siano meno efficienti, ma in linea di massima tutte le aziende strutturate che scelgono di lavorare in smart working hanno dei tassi di produttività importanti.

Da smart leader quali sono le best practice in questo campo che le sono rimaste impresse delle aziende con cui si è interfacciata?
Fondamentale è proprio l’ecosistema dei feedback, perché saper chiedere bene alle persone quali sono le loro aspettative aiuta tantissimo a crescere; il passo successivo è poi mettere in pratica. Quelli che lo fanno meglio hanno un turnover inferiore e dei risultati bomba. Il tema del consuntivo ore è superato, per monitorare il costo delle attività oggi ci sono sistemi intelligenti, diversi tool che consentono di mantenere il controllo e di ritagliare degli spazi. Estensioni di Chrome, ad esempio, che permettono di utilizzare la tecnica del pomodoro (intervalli di cinque minuti ogni 25 di lavoro). E poi attenzione alle call, in riunione da remoto bisogna metterci la faccia, accendere la telecamera, altrimenti è come andare a un appuntamento di lavoro con la muta da sub e il passamontagna.

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