Le generazioni a confronto sul posto di lavoro sono una ricchezza. A confermarlo è il reverse mentoring. Si tratta di una forma innovativa di formazione, in cui non è il dipendente più anziano a guidare quello più giovane ma viceversa. Partendo dal presupposto che possono esserci criticità a livello di competenze da entrambi le parti in gioco, perché non invertire il meccanismo di anzianità? Secondo i dati, pare che sia una strategia vincente.
Inoltre, viene meno la gerarchia tradizionale ed elitaria. Non è infatti a un dipendente senior che viene affidato l’affiancamento di uno junior, si tratta di un rapporto formale che mira a condividere le proprie competenze e la propria crescita professionale. Queste, sempre più spesso, non sono collegate all’età, ma piuttosto all’esperienza, al percorso accademico e alla capacità di apprendere velocemente dalla propria esperienza lavorativa. È anche una parte essenziale delle iniziative volte a promuovere concetti quali diversità e inclusione, permette di creare una leadership aziendale moderna perché forma sia i capi futuri che quelli già esistenti.
Qual è la differenza fra mentoring tradizionale e reverse mentoring
Se, sino a poco tempo fa, era normale vedere un collega più anziano e con maggiore esperienza prendere sotto la propria ala il nuovo arrivato, adesso le cose stanno cambiando e pare in meglio. Con l’espressione reverse mentoring, tradotto letteralmente “tutoraggio al contrario“, si fa riferimento a una nuova pratica che vede il dipendente più giovane affiancare quello con maggiore esperienza.
Ma perché chi ha meno anni all’attivo dovrebbe insegnare a chi ha un bagaglio più importante? La parola d’ordine è digitale, che va di pari paso con nuove tecnologie. È questa la marcia in più che, sempre più spesso, viene riconosciuta alle nuove generazioni fresche di laurea o comunque cresciute con un computer fra le mani. In sostanza, chi è più restio a comprendere i nuovi approcci legati alla digitalizzazione può contare su chi vede questo meccanismo decisamente più familiare e intuitivo.
Sono i Millennials e la Generazione Z al centro di questo modo innovativo di formare la forza lavoro all’interno delle aziende. E c’è anche un plus da non sottovalutare. Ribaltando le prospettive più tradizionali e radicate, si stimola il cosiddetto diversity management che promuove l’inclusività generazionale. Non vige più la scala gerarchica tradizionale, ma si tende a favorire uno scambio equo e privo di sovrastrutture. La vera sfida, ogni volta, è far sì che le differenze non abbiano un peso maggiore rispetto alle opportunità e che i pregiudizi vengano lasciati a casa. Così facendo, si è aperti al confronto e all’apprendimento. Si migliorano i rapporti fra colleghi e – al di là delle competenze vere e proprie – si potrà apprezzare un aumento della produttività e della soddisfazione professionale.
Perché nasce e si diffonde il reverse mentoring
Non si tratta di obiettivi semplici e privi di ostacoli. Gli esperti in relazioni umane spesso sottolineano quanto sia difficile, per quattro generazioni diverse, coesistere all’interno della stessa azienda. Ed ecco perché, nel 1999, per volere di Jack Welch (ex Ceo di General Electrics), è nato il reverse mentoring. È stato lui il primo a chiedere ai propri manager con più esperienza di cercare qualche mentore più giovane che potesse insegnare loro a utilizzare internet.
Oggi più che mai, con un digital gap sempre più importante, una formazione intergenerazionale si sta rivelando prioritario. Se, da un lato, esistono dipendenti con tanti anni all’attivo che non sono in grado di approcciarsi alle nuove tecnologie e all’intelligenza artificiale con la stessa naturalezza con cui lo fanno le generazioni più giovani; dall’altro, ci sono figure inesperte che hanno una marcia in più nell’apprendimento e nell’uso di mezzi avanguardistici e con delle potenzialità praticamente illimitate.L’importante, oggi, è che tutti conoscano le macchine con cui devono avere a che fare per sfruttarle al meglio, riducendo al minimo il margine di errore.
Vantaggi e ostacoli a confronto
Se ben utilizzato, il reverse mentoring può diventare uno strumento dalle tante possibilità. Permette di condividere le competenze, valorizzando a turno i vari talenti. Si possono potenziare le competenze legate alla leadership, senza che queste siano legate necessariamente all’età anagrafica. Si assiste a una riduzione del turnover, si favoriscono l’inclusione e la diversità e diminuisce il divario digitale fra generazioni. Infine aumenta la produttività e migliora l’immagine dell’azienda che lo mette in pratica.
Perché l’applicazione nella vita reale sia un successo, è importante individuare un obiettivo e avere chiari i benefici che si vogliono ottenere a lungo termine. Ecco allora che la pianificazione, con la definizione dei parametri, diventa prioritaria. Bisogna stabilire chi verrà coinvolto, dove e per quanto tempo. Inoltre si devono chiarire le aspettative, cosa si desidera da chi viene coinvolto. Dopodiché è necessario monitorare.
Perché funzioni, un po’ come nelle app di appuntamenti, è fondamentale che ci sia un match, una corrispondenza perfetta fra il mentore e chi deve apprendere una nuova mansione oppure capire come utilizzare un nuovo strumento. Bisogna definire anche le risorse e il metodo di abbinamento, in modo tale da evitare errori, pregiudizi e scontri. Un incontro generazionale costruttivo è la chiave di tutto. Forzare gli eventi, al contrario, è controproducente.
Per cominciare bene è consigliabile un kick-off introduttivo, che permetta agli attori in gioco di entrare fattivamente nel progetto e sentirsi parte attiva. Se si capisce il peso di un determinato progetto, è più facile che lo si faccia proprio e che si lavori sodo per raggiungere l’obiettivo. Perché funzioni ci sono diverse possibilità:
- Incontri in presenza one-to-one;
- Sessioni da remoto;
- Blended mentoring, una via di mezzo fra presenza e distanza;
- Peer mentoring, scambio paritario fra i due colleghi.
Spetta al datore di lavoro o agli HR specialist individuare il metodo migliore per il caso specifico. Comunque, una volta avviato il programma, è bene fissare un monitoraggio periodico e regolare. Si dovrà controllare lo stato di trasferimento delle competenze e il livello di soddisfazione negli attori in gioco. Si dovrà anche fare in modo di verificare il miglioramento delle competenze dell’allievo e delle soft skills per l’insegnante. Non ci sarà solo un upgrade pratico, ma si potrà apprezzare una maggiore qualità delle relazioni, meno incomprensioni fra colleghi, un numero ridotto di conflitti e una risoluzione – almeno in parte – del divario generazionale.
© Riproduzione riservata