L’intervista ad Azzurra Rinaldi è parte di
Leadership, in Italia il potenziale femminile resta ai margini
«In materia di pari opportunità nella Penisola le cose stanno peggiorando, a dispetto della narrazione che si fa nelle aziende. Ed è un tema tutto italiano. Siamo un Paese ricco, ma con performance inferiori a quelle di tanti Paesi poveri. Ce lo dicono i dati del Global Gender Gap Report: su 146 Paesi, ci posizioniamo all’87° posto, sopra di noi ci sono nazioni del continente africano, del Sud America, dell’Asia.
Dei quattro indicatori del report, quello sulla partecipazione economica ci vede addirittura al 122° posto». Azzurra Rinaldi si definisce un’economista femminista. Head of School of Gender Economics, la scuola di Alta Formazione di Unitelma Sapienza che si occupa delle tematiche relative al gender gap e all’empowerment femminile, nel 2022 ha fondato Equonomics, società che porta l’equità di genere in aziende e istituzioni. È autrice di Le donne non parlano di soldi e Come chiedere l’aumento, entrambi editi da Fabbri Editori.
Qual è la situazione all’interno delle aziende in materia di parità di genere?
L’Italia è un Paese retrogrado su tutti i diritti, ma anche all’interno dell’ambiente aziendale si fa molta fatica. Nelle imprese dovrebbe funzionare il principio che chi è più bravo ha posizioni più importanti e guadagna di più, ma non funziona così. Se solo il 22% dei manager e il 4% degli amministratori delegati è donna, significa che c’è uno scollamento sul tema del merito, e il merito è strettamente correlato all’efficienza aziendale. Il sistema, dunque, non è solo iniquo, ma inefficiente dal punto di vista economico e produttivo.
Che strumenti usa per combatterlo?
Innanzitutto, porto i numeri: un numero maggiore di donne in posizioni di responsabilità genera migliori performance aziendali. C’è una ricerca che dice che quando le donne entrano nei Cda il primo dato a emergere è il miglioramento dell’efficienza, e sapete perché? Perché fanno un sacco di domande. Questo obbliga a rivedere i processi, e migliora l’efficienza. Ma è uno stile di leadership che dà fastidio, perché diverso da quello del “gruppo di omogenei” a cui si è abituati.
Risultato?
Le aziende preferiscono realizzare meno profitti piuttosto che mettersi in discussione. Ma lo stereotipo è sottile, e a volte lo si esercita inconsapevolmente. Quante volte mi è capitato che un capo HR, guardando i dati che emergono dalla certificazione della parità di genere, si dimostri soddisfatto per l’alta percentuale di donne in azienda, ma alla mia domanda “quante di queste sono in posizioni apicali?” lui realizzi solo allora che il numero è molto basso. Lo status quo si perpetua anche senza una volontà precisa. È per questo che lavoriamo sulla cultura.
C’è qualche spiraglio positivo?
Le multinazionali si muovono bene, perché hanno le case madri in Uk o negli Usa, e lì i competitor sono attenti alle tematiche di genere. Per quanto riguarda le imprese italiane, la certificazione (che avviene su base volontaria e su richiesta dell’impresa, ndr) qualche piccolo cambiamento lo ha apportato. Per lo meno mette i responsabili delle risorse umane di fronte ai dati.
Ci fa il nome di un’azienda che può essere presa come esempio?
La branch italiana di Danone, vero e proprio caso di studio. La sua responsabile HR Sonia Malaspina (attualmente direttrice Relazioni Istituzionali, ndr) ha apportato cambiamenti rivoluzionari. Ha concesso il congedo di paternità obbligatorio di tre mesi al 100% di stipendio, e le lavoratrici ricevono la lettera di promozione anche durante i cinque mesi di maternità. Risultato: crescita annuale del tasso di natalità interno del 6-8% e il 100% delle madri che ritorna al lavoro dopo la maternità.
In Italia sono tante le donne che lasciano il lavoro dopo il primo figlio…
È il grande tema: le donne vengono allontanate dal mercato del lavoro quando fanno figli. Addirittura, hanno diritto all’indennità di disoccupazione fino a due anni se si dimettono volontariamente nel periodo protetto, ed entro il primo anno di vita del bambino. Ma è un problema soprattutto culturale, perché si basa su un grande misunderstanding.
Quale?
Sono troppe le donne alle quali sentiamo dire: «devo pagare 800 euro per l’asilo nido, io ne guadagno 1.500; tanto vale che rimanga a casa». Ma questo ragionamento è sbagliato, perché le spese vanno divise per quota parte: quando si fa un figlio l’uomo statisticamente guadagna almeno il 30% in più della donna, dunque, dovrà accollarsi una quota maggiore di spese. Invece la donna pensa: «il sistema si aspetta che sia io a prendermi cura di mio figlio; se non lo faccio dovrò essere io ad accollarmi le spese». È una differenza sottile, quanto basta a farci uscire dal mercato del lavoro e a non rientrarci più.
Che consiglio dà alle donne?
Liberatevi dallo sguardo altrui, dai condizionamenti trasmessi prima dalla famiglia, poi dalla scuola, infine dalla società, che ci chiede di essere in un certo modo e ci punisce se non siamo così. Da quello sguardo che ci fa sentire sempre in colpa. Da bambine ci insegnano a essere perfette: sedute composte, con il vestitino, le scarpette scomode, mentre i maschi si arrampicano sugli alberi. I maschi sono spinti a sperimentare, le femmine a stare ferme.
È un tema anche psicologico?
Non siamo educate a gestire il fallimento. Una ricerca che fa scuola negli studi di genere, dice che per le posizioni apicali le donne si candidano solo se hanno il 100% dei requisiti richiesti e spesso, anche se li posseggono, non si candidano comunque. In questo caso entra in gioco la sindrome dell’impostore, quella che ci dice “non sono io la persona giusta”. Gli uomini invece si presentano con il 27% dei requisiti. Ecco una cosa che possiamo imparare da loro.
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