Formazione: i talenti vanno coltivati a ogni età

Costruire una relazione nel tempo e creare il contesto ideale per farli fiorire. Anche tramite la formazione. Il pensiero di Giacomo Sintini, Head of Randstad Training

Giacomo-Sintini | Formazione: i talenti vanno coltivati a ogni età

Il punto di vista di Giacomo Sintini di Randstad Training è parte dell’approfondimento
L’avanzata del reskilling


Fare un bel respiro per cercare di non farsi anestetizzare dalla parola più stressata dalle aziende negli ultimi anni: talento. Un modo c’è, cambiare punto di osservazione, soprattutto spostare l’occhio su una fase successiva, sul tempo in cui occorre non tanto intercettarli e portarli dentro quanto affascinarli per non farli andar via. Ma la domanda è: si può essere talento a ogni età?

«Certo che si può, la nostra consapevolezza rispetto ai talenti può persino aumentare nel corso del tempo. E succede non solo perché maturiamo ma perché le persone che incontriamo possono rivelarci alcune straordinarie qualità di cui – può sembrare strano ma succede – non siamo coscienti. Io non ho mai scoperto da solo le cose in cui ero davvero bravo, sono stato sempre allertato da qualcuno sulle mie capacità per poi darmi da fare grazie a quei segnali», Giacomo (Jack) Sintini, Head of Randstad Training ed ex pallavolista in nazionale, nonché campione e titolare di medaglie italiane ed europee, è la conferma che i talenti non li ferma nemmeno una grave malattia come quella che lo colpì a poco più di trent’anni.

«Il talento è un concetto di relazione che va costruito nel tempo, lentamente, con reciproco ascolto e fiducia; le aziende, per prime, non ci pensano mai». Troppo concentrate su come trattenerli quando ne hanno bisogno o temono di perderli, non sempre sanno coltivare lo scambio nelle fasi precedenti. «Faccio un esempio dallo sport, mondo in cui sono cresciuto. Mi chiedono spesso se un allenatore faccia la differenza in una squadra di calcio di Serie A, piena di grandi professionisti: non solo fa la differenza, marca proprio la squadra e i giocatori. Se pensiamo a un allenatore come la figura che trasferisce solo i fondamentali tecnici, gli stili, i suggerimenti e le letture psicologiche di chi scende in campo, forse pensiamo a un allenatore di figure giovani, ancora poco mature: l’azienda invece dovrebbe assomigliare a un allenatore di figure adulte, diventare cioè un manager per quelle persone, creare il contesto ideale per farle fiorire, ognuna a suo modo».

C’è da chiedersi cosa suggerire alla aziende per fare in modo che i talenti vengano ben affiancati, motivati per adeguarsi competenze senza disperdere il vantaggio. «Serve tanta generosità per spiegare a qualcuno che ha un talento o che lo è. Per questo le persone che incontriamo in azienda fanno la differenza: dire a qualcuno che ha una straordinarietà vuol dire anche consegnargli un peso che da quel momento in poi potrebbe portarlo a mettersi in discussione. Servono competenze profonde dentro le organizzazioni. Tra i rischi peggiori di uffici Hr e manager ci sono la l’inattitudine alla comunicazione, l’invidia e l’incapacità di ascoltare».

La formazione aziendale può essere una buona strada interna, ma sappiamo che non è sempre pensata e organizzata con cura, spesso vive di inerzie. «Si riflette poco sul fatto che anche far emergere un gap è un modo per crescere e per chiarire un talento. La formazione è una grande palestra se fatta con l’intenzione di fornire soprattutto strumenti e non solo buona teoria: dire a un collaboratore talentuoso in formazione che ha magari questa o quella lacuna – e che potrebbe evolvere se ci lavorasse – senza però metterlo in condizione di farlo, apre di certo una relazione di sfiducia con lui. Molto probabile che se ne andrà».

Trattenere i talenti è l’espressione canonica usata nel mondo delle imprese. Ma non convince Sintini, perché segna un gesto attivo solo da una parte, oltre al fatto che trattenere è un verbo che può avere accezioni negative, contenere, restringere, forzare. «Quanto è vero. Le aziende dovrebbero usare altre parole, ad esempio stimolare a restare, ma soprattutto dovrebbero rendersi affascinanti, far innamorare le persone della loro idea di azienda, le persone non devono restare perché trattenute ma perché scelgono da sole di rimanerci. Poi di questi tempi le variabili che spingono a lasciare il lavoro sono parecchie e imponderabili: a maggior ragione le aziende dovrebbero lavorare giorno per giorno su tutti i passaggi invisibili culturali, di relazione, di linguaggio».

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