Non licenziare, ricolloca

Il ricorso all’outplacement è facoltativo, ma spesso conviene aiutare i dipendenti a trovare un altro lavoro anziché liquidarli. Sono molte le società che (sindacati permettendo) si prendono cura dei lavoratori da riconvertire. Ecco come agiscono

Per la vostra azienda è tempo di ristrutturazione (come viene eufemisticamente chiamato il licenziamento collettivo)? Beh, prima di risolvere la cosa alla vecchia maniera, mandando cioè a casa i dipendenti o mettendoli in cassa integrazione, pensateci bene: lo strumento della ricollocazione professionale in Italia non è ancora diffuso come forse dovrebbe, ma una volta sperimentato non potrete fare a meno di riconoscerne le virtù. Favorire il reinserimento delle risorse umane in esubero in altri contesti lavorativi offre innanzitutto vantaggi dal punto di vista monetario, perché spesso conviene investire in formazione e affiancamento anziché sborsare indennità e buone uscite. Ma non bisogna sottovalutare i benefici di cui potrebbe pure godere la reputazione dell’impresa, dalla quale discende anche l’immagine che l’azienda proietta sul territorio in cui opera. E poi – perché negarlo? – è eticamente encomiabile. Per fortuna nella Penisola gli esperti a cui chiedere una consulenza, rigorosamente facoltativa, non mancano. Sì perché a differenza di altri Paesi, come per esempio la Francia, in Italia la ricollocazione professionale – o outplacement – non è sul piano normativo un passaggio obbligato. E rispetto ai licenziamenti collettivi le agenzie di outplacement intervengono nella trattativa solo quando la situazione è ormai degenerata, quando cioè i sindacati, quasi sempre dopo estenuanti trattative, non sono riusciti a garantire la permanenza dei dipendenti in azienda. Ma prevenire, in molti casi, sarebbe meglio che curare.

Uno nessuno o centomila?

Ci sono due tipi di ricollocazione professionale: quella delle singole risorse (come manager, quadri o impiegati di livello) e per l’appunto quella di gruppi, o collettiva. La remunerazione delle agenzie di outplacement si adegua al tipo di programma. «Sui programmi collettivi il compenso è legato al risultato», dice Gabriella Lusvarghi, amministratore delegato di Dbm Italia, società che fa capo a Gi Group. «Negli altri processi, poiché di solito è necessario garantire un’assistenza più lunga, lavoriamo sulla percentuale della retribuzione della risorsa». La società di outplacement, nel caso di licenziamenti individuali, segue in effetti tutte le fasi della risoluzione del rapporto di lavoro: «Innanzitutto l’azienda deve affrontare il problema di come comunicare con la persona da licenziare», spiega Franco Faoro, presidente di S&A Change. «Ci sono aspetti spinosi sia per quanto riguarda il piano formale contrattuale, sia rispetto alla trattativa per gli incentivi economici, per non parlare dell’impatto psicologico che la decisione ha sulla persona». Dopodichè si passa alla fase più importante: il reperimento, in tempi rapidi, di una nuova posizione per il lavoratore licenziato, che se dal punto di vista della remunerazione deve essere coerente con lo stipendio a cui rinuncia, non necessariamente rispecchierà il tipo di attività svolta fino al momento della risoluzione del contratto. E qui i manager possono scoprirsi imprenditori. «Nel 2009 si stima che 7 mila dirigenti abbiano perso il posto», dice Lusvarghi. «E sul mercato del lavoro non c’è spazio per tutti. La strada che proviamo a far percorrere è quella dell’attività consulenziale, dal temporary management fino a una iniziativa imprenditoriale vera e propria. Forniamo contatti con venture capital e società di franchising che riteniamo interessanti da esplorare, ma diamo anche supporto alla persona, elaborando business plan e verificando le diverse soluzioni da un punto di vista sociale, fiscale e contributivo». Ci sono persino casi in cui nemmeno ad avvenuta ricollocazione la risorsa viene abbandonata. «Una volta che i nostri candidati hanno terminato il processo di reinserimento, rimangono parte di un network chiamato Right alumni, all’interno del quale hanno la possibilità di affinare la propria esperienza, mantenere alto il livello del confronto e sviluppare la capacità di porsi in modo vincente nel mondo professionale, che è in continua evoluzione», racconta Antonio Angioni, direttore generale di Right management, società del gruppo Manpower. Quanto dura la gestazione per la rinascita di un manager? Secondo Faoro di S&A Change servono dai tre ai sette mesi, durante i quali vengono affrontati dai 30 ai 40 colloqui. La situazione è decisamente più complessa quando si parla di ricollocazione collettiva: a volte lo stesso lasso di tempo basta appena per le prime trattative tra azienda, dipendenti e sindacati.

Resistere a oltranza

E già, perché nel momento in cui in un’azienda le risorse in esubero sono diverse decine, se non centinaia, la parola passa per legge ai sindacati, che ancora non sembrano apprezzare troppo lo strumento della ricollocazione. «Nei processi di gruppo le società di outplacement hanno come interlocutore il sindacato, anche se sarebbe meglio dire “i” sindacati, perché spesso abbiamo a che fare con tre soggetti alla volta», precisa Faoro. «Le priorità delle sigle sindacali sono nell’ordine: evitare il licenziamento, ottenere la cassa integrazione o per lo meno la mobilità, e poi eventualmente considerare l’outplacement. I motivi? Prima di tutto c’è una scarsa cultura dello strumento, poi esiste un aspetto ideologico: i sindacati non si stanno adeguando ai processi di cambiamento nel nostro Paese, che comincia a muoversi sul fronte della flessibilità. E gran parte delle organizzazioni considera il nostro lavoro un servizio in competizione con loro». Pure Lusvarghi di Dbm sostiene che alcuni sindacati sono poco propensi a cooperare. «Anche se per certi versi l’atteggiamento negli ultimi tempi è cambiato succede spesso che pregiudizialmente non si accetti l’inevitabilità degli esuberi e si punti solo alla messa in mobilità». Di diverso avviso Antonio Angioni. «Non è vero che i sindacati si mettono sempre di traverso. È ovvio che le organizzazioni sindacali tutelino prima di tutto il posto di lavoro cercando strade alternative. Ma quando si trovano a gestire situazioni particolarmente complesse favoriscono soluzioni per la ricerca di altre posizioni». Bisogna dire che i sindacati è meglio tenerseli buoni, soprattutto perché, stando a quello che dice Franco Faoro, più spesso di quanto si pensi sono loro a scegliere l’agenzia di outplacement di cui ci si avvarrà per la ricollocazione dei lavoratori. «In ordine di importanza i criteri in base ai quali veniamo ingaggiati sono il risparmio economico, per cui le aziende, visti i numeri significativi dei licenziamenti, cercano sempre il prezzo più basso (e questo comporta in genere una penalizzazione dei risultati); il gradimento dell’agenzia da parte del sindacato e, solo alla fine, l’impressione che il lavoratore ricava dall’incontro con l’agenzia stessa». Il margine di miglioramento dunque c’è, eccome, ma l’obbligatorietà per legge del ricorso all’outplacement in fase di “ristrutturazione” sembra ancora lontana. Almeno quanto la riforma degli ammortizzatori sociali.

Prima di licenziare, clicca qui:

Right Management www.right.com

DBM Italia www.dbmitalia.com

S&A Change www.outplacement.it

AISO – Associazione Italiana Società di Outplacement www.aiso-outplacement.it

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