Manager sull’attenti

Ecco come funziona la leadership nelle organizzazioni dove non è la gratificazione economica la leva per spingerei propri collaboratori a dare il massimo. Quando in gioco ci sono la sicurezza nazionale – e a volte la vita – i gradi e la gerarchia non sono tutto. Anzi… Tre alti ufficiali, rispettivamente della Marina, dell’Esercito e dell’Aeronautica, spiegano la differenza tra dirigere e comandare

In ufficio vi sarà certamente capitato di parlare del capo chiamandolo (senza che lui lo sappia, ça va sans dire) colonnello, o meglio ancora generale. I più romantici – e i più fanatici – magari si rivolgeranno a lui con un epico «Capitano, mio capitano», ricordando il film L’attimo fuggente, dove a loro volta i ragazzi chiamavano il professore Robin Williams citando la poesia di Walt Whitman dedicata ad Abraham Licoln. E poi, chi non ha tra i colleghi, il classico “sergentone”, tutto rigore e sciovinismo nei confronti dei superiori? I riferimenti alla gerarchia militare in azienda si sprecano, è risaputo. Ma vi siete mai chiesti come sarebbe davvero lavorare all’interno di un’organizzazione militare? Noi, com’è davvero, l’abbiamo domandato a tre alti ufficiali, uno dell’Esercito, uno della Marina e uno dell’Aeronautica. Abbiamo interpellato tre top manager, chiamiamoli così, dell’azienda Difesa, per capire quali sono i compiti, le attitudini e le professionalità nella gestione delle risorse materiali, logistiche e soprattutto umane in situazioni dove spesso a rischio non è tanto il budget, o il business. Bensì la sopravvivenza. E abbiamo scoperto che al di là della similitudine, sono davvero molti i punti di contatto tra le esperienze di chi comanda e quelle di chi di dirige.

Contrammiraglio GIOVANNI GUMIERO

Al vertice dagli abissi Dopo aver frequentato l’Istituto nautico di Roma ed essere entrato in Accademia navale, Giovanni Gumiero avvia la propria carriera sui sommergibili Toti, Bagnolini, Marconi, Romei e Sauro, dove trascorre i primi 12 anni di servizio. Nominato capo servizio operazioni presso il Comando dei sommergibili a Taranto, viene poi destinato a Norfolk, Virginia, negli Stati Uniti, presso il Comando supremo Nato dell’Atlantico. Da settembre 2007 a giugno 2008 ha svolto l’incarico di comandante delle Forze di contromisure mine a La Spezia. Successivamente ha comandato per un anno il Secondo gruppo navale permanente della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2. Da settembre 2010 è a Roma dove ricopre l’incarico di Sottocapo di Stato maggiore del Comando in capo della Squadra navale.

Quali devono essere le doti principali di chi ricopre un ruolo come il suo?La carriera militare è sostanzialmente basata su valori astratti, come Patria e Onore. L’azione del leader militare è quindi mirata ad alimentare la motivazione e la coesione. Ma un capo militare deve in primo luogo conseguire obiettivi operativi. In altre parole “deve conseguire il risultato” nei termini e nel contesto del tempo e nella società in cui si vive. È un errore credere che il grado rivestito costituisca a priori un fattore di leadership: un dirigente delle Forze armate deve sapere creare e consolidare sentimenti di motivazione e di coesione. Per un equipaggio questo avviene quasi naturalmente: la nave è il catalizzatore. Proprio l’immersione totale del comandante nella realtà fisica della nave, nell’organismo a lui assegnato, e nei sentimenti più profondi dell’equipaggio, è quello che contraddistingue il comando navale da qualsiasi altra professione e lo rende invidiato.

Che tipo di leadership adotta un comandante navale?Lo stile di comando è sempre soggettivo, legato al carattere e alla personalità di chi lo esercita. Prendo ad esempio tre figure esplicative, tre Ammiragli del passato: Persano, Tegethoff e Nelson. Tre figure molto diverse. Carlo Pellion di Persano è un esempio in negativo: non parlava con i subordinati, non definiva il piano d’azione e sconvolgeva l’organo di comando in fase esecutiva. Ma le colpe per la sconfitta di Lissa non sono tutte e solo sue. Era in possesso di un predominio tecnologico che non ha saputo sfruttare per carenze addestrative, d’accordo. Ma esistevano anche macroscopiche carenze di dottrina e conoscenza, di amalgama e coesione di professionalità e iniziativa dei comandanti. Wilhelm von Tegetthoff, giovane e dinamico, era dottrinalmente innovativo, perentorio e di teutonica accuratezza nei suoi ordini, che però discuteva prima a lungo con i comandanti, ma era rigido nella loro applicazione. E infine Horatio Nelson: profondo conoscitore dei suoi comandanti, stimato e capito, culturalmente portato all’iniziativa, alla flessibilità e alla decentralizzazione, fiducioso dell’assonanza culturale e dottrinale con i suoi dipendenti, teorico del “fog of War”, cioè del caos come elemento gestibile solo con la flessibilità e la delega, ma inflessibile nell’addestramento. Ogni comandante deve essere capace di costruire la propria leadership ma conservare lucidità e onestà nei confronti della Nazione e dei valori di riferimento.

Nelle scuole di management si insegna a ottenere consenso per guidare un’azienda. E all’Accademia?La capacità di gestione è solo un aspetto del profilo di un ufficiale, un elemento che viene insegnato sia in Accademia che nei corsi successivi. Il manager, infatti deve saper gestire uno strumento complesso nei suoi aspetti tecnico-amministrativi, assicurandone l’efficienza tecnica. Ma ciò non è sufficiente. Il comandante deve essere anche un professionista responsabile dell’efficacia operativa e, come tale, deve conoscere a fondo le capacità e i limiti del suo mezzo e del suo personale. Deve saperle fondere in una visione olistica per garantire la massima efficacia operativa. Infine, da leader deve essere capace di fare propri gli obiettivi istituzionali e trasmetterli ai dipendenti, aggregare e creare condivisione di intenti. Non si diventa leader cavalcando le rivendicazioni dei propri dipendenti, ma facendosene interprete, diventando un riferimento rigoroso, anche duro se necessario, ma sempre attento alle loro esigenze: un capo, non un fratello maggiore.

Generale AMEDEO MAGNANI

La passione del volo Entrato in Aeronautica nel 1980 come allievo ufficiale, Amedeo Magnani frequenta a partire dal 1984 le scuole di volo di Lecce e Amendola, dove nel 1985 consegue il brevetto di pilota militare. Viene assegnato al 23esimo gruppo del 5˚ Stormo di stanza a Rimini, dove rimane per tre anni. In seguito è trasferito a Lecce in qualità di istruttore di volo per poi rientrare nei Reparti operativi. Seguono diversi incarichi in Italia e all’estero (tra cui l’impiego per quattro mesi, nel 2001, a Sarajevo come Air forward/chief Anc presso il comando della Forza di stabilizzazione in Bosnia e il corso di pilotaggio F16 nella base di Tucson, in Arizona) prima di diventare, nel 2003, comandante del 5˚ Stormo Caccia intercettori. Dal 2005 al 2010 è responsabile della pubblica informazione della Forza armata. Attualmente è ispettore della Sicurezza Volo.

Lei ha iniziato come pilota di aviogetti. Come ha maturato la consapevolezza del ruolo dell’ufficiale?Ho cominciato con una passione genuina nei confronti del volo, che poi si è sviluppata con la grinta. È la grinta che muove tutti i virtuosismi, è la grinta che permette di uscire dalle situazioni di difficoltà facendo ricorso a quanto appreso durante l’addestramento. E poi di fondo ci vuole un pizzico di umiltà, per rimanere con i piedi per terra, per non osare mai oltre quello che è giusto. Sa, in cielo non si inventa e non si approssima niente. E alla fine il ruolo di un ufficiale è questo: pianificare bene ogni cosa per raggiungere il target in piena operatività. Bene e in sicurezza, ci tengo a precisarlo.

Come si declina questo approccio sui sottoposti?L’uomo merita il massimo rispetto. Perché pur essendo un militare vive circondato da tanti problemi, anche personali. Un buon leader deve pretendere dai collaboratori una condotta sana e un addestramento ottimale, ma deve anche saper capire come sta l’uomo che deve comandare quel giorno e, nei limiti del possibile, sfruttare le caratteristiche del singolo al servizio della missione. L’operazione Unified protector in Libia ha dimostrato la bontà di questa impostazione: siamo stati all’interno di una coalizione internazionale da protagonisti, mettendo in luce il valore dell’addestramento, della passione, dell’educazione, della selezione che vigono in Aeronautica. E abbiamo ottenuto un importante risultato: niente “boots on the ground”, con il nostro intervento è stata ribadita l’imprescindibilità del potere aereo nei conflitti, visto che si è rovesciato un Paese senza rischiare nemmeno un fante.

Come motiva il team in assenza di incentivi economici?Con l’esempio. Dare l’esempio, soprattutto all’interno di un teatro operativo, porta il subalterno a interagire meglio col proprio capo. Ma la cosa più importante è definire il come e il perché si deve fare qualcosa, cercando di trasmettere il fine ultimo che si vuole raggiungere. Sì, un bravo leader deve saper comunicare, e nei limiti del possibile far amare ai subalterni il proprio lavoro.

Lei dal 2005 al 2010 è stato capoufficio stampa dell’Aeronautica militare. Un incarico che ha più del colletto bianco che dell’ufficiale…Mi è piaciuto moltissimo lavorare con un piede dentro e uno fuori l’organizzazione. È stato appassionante poter mostrare la “mia” Forza armata, e quando ce n’è stato bisogno, anche difenderla da attacchi ingiusti. Mi ha arricchito molto come uomo, e mi ha fatto vedere il mondo in cui ho sempre vissuto dall’esterno. Ho imparato che maneggiare carta e penna, talvolta,è più difficile e delicato che pilotare un aereo! E mi sono reso conto che spesso partire dalla critiche che si ricevono è un ottimo modo per cominciare a spiegarsi meglio. E poi ho apprezzato ancora di più il valore della trasparenza, che in questo lavoro è la virtù più importante.

Adesso invece è ispettore della Sicurezza Volo, un altro ruolo squisitamente manageriale…È un incarico molto importante, perché ha “il privilegio di poter salvare vite umane”. Attraverso la prevenzione, innanzitutto. Bisogna andare a caccia del serpente a sonagli che potrebbe annidarsi in qualsiasi organizzazione, identificarlo e colpirlo prima che lui colpisca l’organizzazione. In caso avvenga un incidente di volo, invece, bisogna fare tesoro di quello che è successo, investigando per prevenire il prossimo incidente. Il concetto alla base di questo lavoro è quello della “just culture”: l’errore è insito in qualsiasi attività umana, è un dato. Ma l’Aeronautica militare è intransigente e implacabile nei confronti di chi “sbaglia” con dolo o colpa grave. Solo con questo tipo di cultura si può fare opera concreta di prevenzione. Il sistema è talmente efficace che riceviamo richieste da parte di manager civili che vogliono seguire i nostri corsi di sicurezza. Abbiamo già collaborato con Enel, Fs, Aeroclub d’Italia, e persino Bocconi e Bicocca ci hanno contattato per approfondire il nostro Crm (Crew resourch management) alla ricerca di nuove strategie per il potenziamento delle loro risorse umane.

Generale di brigata CARMINE MASIELLO

Pratica e teoria Il generale Carmine Masiello ha conseguito il brevetto di paracadutista militare e l’abilitazione al lancio con tecnica di caduta libera, è comandante di pattuglia guida e direttore di lancio. È in possesso dei brevetti di paracadutismo francese, canadese, belga, statunitense e giordano. Ha frequentato il corso avanzato per Ufficiali di artiglieria e il corso di gestione delle risorse, entrambi negli Stati Uniti. Ha conseguito una Laurea in Scienze politiche, una laurea in Scienze strategiche, una laurea di secondo livello in Scienze internazionali e diplomatiche, il master di specializzazione in Studi europei e il diploma di perfezionamento scientifico in Organizzazione della cooperazione e dell’integrazione europea.

Nel lavoro che svolge lei si sente un manager?Direi che mi sento anche un manager. Sono soprattutto un ufficiale che ha ricoperto più volte la funzione di comandante, e quindi con compiti manageriali. Quando sono entrato in Accademia, negli anni ‘80, la parola d’ordine era ufficiali-manager: c’erano percorsi formativi simili a quelli che affrontava un dirigente d’impresa. E anche se ora questa tendenza non è più così evidente, credo che a distanza di 30 anni le cose non siano cambiate molto: basti pensare che oggi più che mai diverse aziende e alcuni esponenti di Confindustria si avvicinano al mondo militare per osservare e prendere spunto dal nostro modello di leadership. Con alcuni imprenditori e manager abbiamo anche organizzato nel 2009 e nel 2011 delle vere e proprie attività di team building dedicati alla leadership.

Qual è il concetto di leadership all’interno dell’Esercito?Per come la intendiamo noi, la leadership è fondata sulla centralità del fattore umano, ed è sui rapporti interpersonali che è imperniata la maggior parte delle attività. Naturalmente alla base deve esserci una competenza professionale riconosciuta, sulla quale poi si innesta il carisma, che deriva dalle professionalità e dalle doti innate dell’individuo. Le operazioni in aree di crisi, in particolare, sono veri banchi di prova per ciascun militare. Ed è un rapporto necessariamente bilaterale, quello che si sviluppa tra noi e i sottoposti. La nostra è una professione atipica, in cui per il perseguimento dell’obiettivo si può arrivare alla richiesta estrema di rischiare la vita. Per questo serve una totale, reciproca fiducia, che gli uomini e le donne devono avere nei comandanti e i comandanti nelle capacità dei loro sottoposti. Questa è leadership.

Che tipo di attività proponete agli imprenditori che cercano nel modello gerarchico militare un esempio?Li stimoliamo in situazioni di disagio e osserviamo come reagiscono i singoli all’interno del gruppo: la simulazione di una cattura, o del trattamento da prigionieri sono esperienze che portato all’estremo la psiche dell’individuo, e una volta messo sotto stress si capisce abbastanza in fretta chi conduce il gioco nei confronti dei carcerieri, chi prende l’iniziativa nelle simulazioni di fuga, chi conquista la fiducia degli altri. Chi, insomma, dimostra di essere un leader. E mi creda, non si è mai rivelata un’esperienza traumatica: abbiamo lavorato con un bacino di imprenditori di un certo livello, che per storia umana e professionale hanno già sviluppato certe caratteristiche. E francamente noi come loro siamo rimasti stupiti del successo del progetto, tanto è vero che abbiamo ricevuto nuove richieste per fare attività con altri utenti, tra cui anche giornalisti, e al momento stiamo valutando l’ipotesi di sistematizzare i percorsi formativi.

L’arte del comando è qualcosa di innato o si può imparare?Si impara a comandare stando insieme agli uomini. A differenza di quanto si possa pensare, il nostro sistema di comando non è basato sulla gerarchia: comandare con il grado oggi è difficile, per non dire impossibile. Immagini un giovane ufficiale, un tenente che dopo cinque anni di studi si trova nell’unità operativa, alla sua prima esperienza di comando, con 30 soldati alle sue dipendenze. Fino a quando esisteva il servizio di leva questo gruppo cambiava ogni anno, e quindi davanti a sé il giovane tenente aveva sempre uomini senza troppa esperienza. Oggi si trova di fronte a 30 uomini che hanno alle spalle almeno sei-sette anni di addestramento e operazioni, e quindi con più esperienza di lui. Non si può sperare di comandare questi uomini facendo leva solo sul proprio grado, bisogna dimostrare di saperne per lo meno quanto loro. Diciamo che il paradigma di comando è cambiato: si è passati dal grado all’esempio.

© Riproduzione riservata