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Leadership

Top manager italiani all’estero: Italians do it better

La lista di top manager del nostro Paese che hanno successo all’estero è lunga e non riguarda solo il settore della moda e del lusso. Qual è il loro segreto? Rispondono tre head hunter di livello internazionale

architecture-alternativo Credits: © iStockPhoto

Se non fosse un francesismo che poco si sposa con lo spirito di questo articolo, si potrebbe parlare di un certo savoir faire. Non si può spiegare diversamente quel particolare mix di competenze e soft skill che ha permesso a numerosi top manager italiani di imporsi come prima scelta quando per una grande multinazionale è stato il momento di affidare un ruolo di primo piano all’interno della propria organizzazione.

Da ultimo è stato Pietro Beccari, top manager in orbita Lvmh dal 2006, che dallo scorso gennaio è diventato il primo italiano a guidare Louis Vuitton nei panni di presidente e amministratore delegato. L’elenco è lungo e quello che Business People vi propone in queste pagine non può essere esaustivo – non ce ne vogliano gli “esclusi” – ma indica un trend che, almeno per il momento, non sembra esaurirsi.

Il segreto dei manager italiani all’estero

Qual è il loro segreto? Cosa rende così speciali gli italiani nella gestione di un’azienda? «Difficile generalizzare, parliamo di manager provenienti da diversi settori, ognuno con una storia diversa, ma si può trovare qualche tratto comune », afferma al nostro magazine Massimo Picca, Senior Equity Partner di Chaberton Partners, tra le principali società di executive search a livello internazionale. «Molti di questi manager sanno operare in maniera brillante in contesti molto strutturati, come quelli di una multinazionale, perché mantengono capacità di innovazione e pensiero critico senza appiattirsi su logiche di appartenenza proprie di un’organizzazione. Di fatto, sono dei challenger del sistema, ma operano al suo interno».

Della stessa opinione Beatrice Ballini, Managing Director di Russell Reynolds, altra realtà di primo piano specializzata in executive search. «Ha successo chi si adegua in maniera ineccepibile alle regole dell’aziende e del Paese in cui lavora. Solitamente, a differenza di manager di altri Paesi, l’italiano non mostra un atteggiamento di superiorità, ma sa inserirsi con umiltà nel contesto in cui va a operare prima di puntare a essere il migliore».

Un esempio in tal senso è Francesca Bellettini, Ceo di Yves Saint Laurent. «Non è arrivata lì per caso», sottolinea Ballini, «per lei non è stato semplice calarsi nella lingua e nel contesto della multinazionale francese, ma ha dimostrato una marcia in più. Segnalo anche Davide Grasso, oggi Ceo globale di Maserati. Proveniva da Nike ed è un grande esperto di marketing, ma non conosceva il settore automotive. Ha accettato inizialmente un affiancamento da parte di un manager tedesco del settore, perché gli insegnasse tutto quello che c’era da sapere, poi è riuscito a risollevare l’azienda da uno storico estremamente difficile».

Secondo Picca, altro elemento che accomuna numerosi top manager italiani è una spiccata empatia e capacità di creare engagement. «Molti di questi profili sono entrati nel mondo del lavoro negli anni 90 e sono stati protagonisti in prima persona di una transizione da un modello di leadership fondato sulla gerarchia e il controllo a uno basato sull’ascolto», spiega il Senior Equity Partner di Chaberton Partners. «Non è quindi un caso che oggi siano riconosciuti come manager eccellenti e considerati da molti loro ex colleghi come veri e propri mentori».

Le grandi scuole italiane di management

La cospicua presenza di italiani ai vertici di aziende internazionali è un fenomeno recente? In realtà no, anzi: il trend è in lieve calo, come ammette Nicola Gavazzi, anch’egli Managing Director di Russell Reynolds. «In passato l’Italia rappresentava una grande scuola per i manager del mondo industriale e dell’Ict, oggi praticamente tutto questo non esiste più. Di manager italiani del settore It che fanno il giro del mondo ce ne sono molti, ma decisamente meno rispetto al passato». Trovare la risposta a questo calo non è difficile. Un tempo, spiega Gavazzi, le multinazionali tecnologiche erano più presenti in Italia e potevano contare su decine di migliaia di dipendenti, oggi ridotti a poche migliaia, segnale che la Penisola rappresenta sempre meno una palestra per manager e più un’attività commerciale.

«Che sia in ambito finanziario, industriale o di un altro settore, ci sono aziende dalle quali devi passare per avere una formazione», sottolinea Beatrice Ballini, che cita la “scuola” Procter & Gamble, dalla quale sono usciti due top manager come Toni Belloni, oggi braccio destro di Bernard Arnault in Lvmh, e Fabrizio Freda, presidente e Ceo di The Estée Lauder Companies. «Purtroppo alcune di queste scuole non esistono più o non sono più in Italia», ammette.

Tra queste rientrano Montedison e Olivetti che, tra gli altri, ha dato il la alle carriere di Vittorio Colao e Corrado Passera. «Anche la Fiat di un tempo, che ha formato manager eccellenti come Luca De Meo (a.d. del gruppo Renault, ndr) non esiste più», ammette Gavazzi. «Purtroppo le palestre professionali in Italia si stanno depauperando: o si decide di andare all’estero o è sempre più difficile fare carriera». Secondo Ballini, però, nel momento in cui si trasferisce all’estero il manager italiano può mostrare quella creatività, capacità di adattamento e sensibilità superiori a manager spagnoli, francesi o tedeschi.

In un recente documento, Jacob Hoekstra e Marco Tiozzo Fasiolo, rispettivamente Ceo Global e Americas Director di Kilpatrick Executive Search hanno sottolineato l’empatia congenita dei manager italiani e la loro capacità di creare buone relazioni nell’ambiente di lavoro, figlia di una spontaneità nel godersi la vita. Il fatto, poi, di essere circondati dall’infanzia della bellezza del nostro Paese e dall’arte ci permette di sviluppare un grande senso estetico.

Un punto, quest’ultimo, sui cui concorda Massimo Picca, che aggiunge: «Abbiamo anche un Dna votato all’imprenditorialità. Chiunque viva in Italia, anche se cresciuto professionalmente in una multinazionale, ha vissuto vicino a contesti di imprenditorialità che ne hanno stimolato indipendenza e capacità di innovazione. Non è un caso che top manager come Toni Belloni e Fabrizio Freda lavorino così bene in multinazionali che fanno ancora riferimento alla famiglia fondatrice».

Oltre a una personalità più piacevole rispetto ad altre culture, Gavazzi indica un altro punto a favore degli italiani. «Spesso critichiamo la nostra scuola, ma il bagaglio culturale fornito da medie e licei del nostro Paese è di gran lunga superiore a quello che riceve, ad esempio, un ragazzo americano, e questo porta a sviluppare una sensibilità sociale diversa».

C’è qualcosa che, invece, un manager italiano può imparare da un’esperienza all’estero? «A gestire le persone», risponde sicura Ballini. «In un’azienda imprenditoriale italiana, chi insegna ai giovani manager come si gestiscono, si motivano, si fanno crescere le nuove generazioni? Per quanto brava sia, una persona non può apprenderlo se non lavora in un’azienda che insegna queste cose».

Una realtà molto più strutturata a livello internazionale può, inoltre, favorire una maggiore capacità di pianificazione. «Noi italiani siamo molto bravi a risolvere gli imprevisti, ma se imparassimo a pianificare di più», conclude Gavazzi, «avremmo meno “incendi” da spegnere. Detto questo, tra un manager italiano che sa reagire all’imprevisto e uno di un altro Paese che va in tilt se gli cambi il manuale delle policy, è sempre meglio un italiano!».


Questo articolo è tratto da Business People di aprile 2023, scarica il numero o abbonati qui