Diversity, Equity e Inclusion: è ora di passare dalle parole ai fatti

Genitorialità e gap generazionale, e poi disabilità e LGBTQI+. Sono solo alcune delle tendenze emergenti per la DE&I nell’immediato futuro. Ad accomunarle, però, s’impone un unico definitivo imperativo: è finito il tempo delle elucubrazioni

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Il grande rischio che corrono le imprese è scivolare sulle parole, mai così al centro dell’investimento mediatico e comunicativo con cui negli ultimi 15 anni si sono imposte sul mercato: dopo l’onnipresente sostenibilità, sul podio svettano diversità e inclusione. Se non le nominano in qualche loro sito, spot, comunicato stampa o intervista, quasi si sentono perse. Comprenderne realmente la portata socioeconomica è il primo passo da affrontare per chi sceglie di dare sostanza ai luoghi di lavoro, fino ai bilanci.

Intanto è buon esercizio spiegare quanto siano diversi i due termini e perché funzionino così bene insieme. Diversità richiede uno sguardo alla forza lavoro, a come è composta l’organizzazione, quali e quanti percorsi e radici distinti vengano trasferiti dai collaboratori in termini di età, genere, religione, orientamento sessuale, nazionalità, livello di istruzione e formazione, disabilità. Inclusione arriva dopo, oltre al fatto che è un concetto invisibile e senza forma, tutta sostanza: ha a che fare con l’accettazione di tutte, e molte ancora, quelle differenze riscontate nel contesto lavorativo.

Tra i TedX che farebbero bene ai manager italiani c’è quello di Verna Myers, avvocatessa e consulente americana per la diversità, nonché vicepresidente della strategia di inclusione per Netflix: nel 2014 salì sul palco del celebre punto rosso per spiegare che l’unica strada adatta a superare i nostri pregiudizi è camminare verso di loro. La Myers merita però di essere ricordata anche per un’altra celebre perla: «La diversità è quando ti invitano alla festa, l’inclusione è quando ti invitano a ballare».

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In ogni caso, parlarne e basta non serve a cogliere la progressione di una cultura di impresa: si rivela prezioso il Diversity, Equity & Inclusion Maturity Index di Deloitte, datato 2023: il progetto è appena nato come sviluppo del report che fino al 2022 misurava la DE&I solo in ambito finanziario. Dallo scorso anno Deloitte monitora invece tutte le industrie, con lo scopo di misurare progressioni e frenate, oltre che suggerire strategie a supporto di aziende bisognose di sanare vuoti e gap. In particolare, è stimolante confrontare il framework italiano – certamente ispirato alla natura di imprese mediamente sviluppate, talvolta con impianti ancora familiari – con quello internazionale, senza dubbio tarato su logiche e culture da multinazionale.
Nel suo Index 2023, Deloitte ha misurato che l’80% delle imprese-organizzazioni ha sviluppato almeno una iniziativa per contribuire alla Diversity: il dato è ancora più rilevante se si pensa che le organizzazioni più attive appartengono al settore Consumer, quelle meno operose hanno invece a che fare coi settori Government & Public Services ed Energy: sono oltre 200 le realtà italiane mappate dallo studio, in settori che coprono Consumer (59%), Government & Public Services (16%), Life Sciences & Health Technology, (13%) Media & Communication (5%), Energy, Resources & Industrials (4%), Financial Services (3%). Vediamo alcuni dei pillar strategici su cui si concentrano le imprese italiane, e che coincidono in buona parte con le tendenze globali del 2024.

  • Genitorialità e caregiving
    Forse è il campo della DE&I su cui si investe ancora troppo poco. Se nel campione è risultata consistente la possibilità di lavorare in modo flessibile (48%), il supporto alle madri durante il reinserimento è debole (20%), l’estensione del congedo di paternità ancora di più (18%). Scarsa la quota di imprese che concede permessi retribuiti per la cura dei figli (solo il 16%, fatta eccezione per il settore finanziario che registra un 50%), addirittura appena l’11% per il caregiving. Soltanto il 2% ha stipulato policy legate alla genitorialità affettiva e unioni civili.
  • L’età conta
    Se le imprese non radicano la DE&I vanno poco lontano. Si parla ancora troppo poco, ad esempio, del fenomeno diffuso che riguarda da vicino soprattutto le big tech: grandi proclami sui valori e sulle politiche per poi lasciare a casa i propri collaboratori quando superano la soglia dei 50 anni, spesso anche meno. Un grande trend della DE&I a volte sembra essere l’incoerenza.
  • Gap generazionale
    In media si dice siano cinque le generazioni che si possono incontrare nella stessa impresa, dalla Silent generation alla Gen Z: è un dato verosimile in Italia dove la cultura e l’impianto di molte aziende rallenta spesso l’uscita del fondatore dell’azienda. Di solito si tende a dissociare i concetti, ma in realtà le azioni di riduzione dei bias cognitivi dovrebbero andare di pari passo col dialogo intergenerazionale. L’inclusione ha sfumature molto più sottili: i manager che si impegnano in questa logica, soprattutto i manager da livelli intermedi che sono le vere cerniere di un’impresa e possono favorire nuove forme di dialoghi, possono fare piccoli miracoli.
  • LGBTQI+
    A dir poco perdenti le imprese che investono solo nelle toilette neutre di genere, o solo nel cambio repentino di nomi declinati al femminile piuttosto che al maschile, o direttamente svuotati di identità per paura di fare torto a qualcuno.
  • Disabilità e neurodiversità
    Da segnalare che solo il 4% delle imprese ha inserito la figura del Disability Manager. Sopra il 30% medio, invece, l’abbattimento di barriere per implementare l’accessibilità fisica.
  • La protezione della salute mentale dei collaboratori
    Un fatto: la relazione del Parlamento europeo di giugno 2022 – redatta dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali – che è andata dritta sull’emergenza della prossima, inevitabile, crisi sanitaria mondiale se non si prenderanno in fretta provvedimenti all’interno delle imprese. La prossima pandemia potrebbe essere legata alla perdita di salute mentale nei luoghi del lavoro. La relazione si chiudeva con l’invito ad adottare piani di prevenzione, sottintendendo finalmente che la salute mentale non è mai stata considerata all’altezza di quella fisica, ma che il tempo è scaduto e serve agire. Anche l’Oms ha recentemente rimarcato l’urgenza di politiche di inclusione e ascolto da parte delle imprese pubbliche e private, dato che oltre 300 milioni di persone al mondo soffrono di disturbi mentali a causa del lavoro: li chiama espressamente esaurimento, ansia, depressione, stress post-traumatico. In Europa un lavoratore su quattro è convinto che la propria salute mentale risenta negativamente della propria condizione professionale.

L’INTERVISTA – Il punto di vista di Maria Cristina Bombelli, presidente di Wise Growth, società di consulenza che propone l’idea di un nuovo equilibrio globale e locale per la DE&I


Questo articolo è tratto dallo speciale Diversity, Equity & Inclusion di Business People di maggio 2024, scarica il numero o abbonati qui

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