Il futuro del social shopping

Dovrebbero raggiungere un valore pari a 8,5 trilioni di dollari entro il 2030, ma il potenziale di Instagram, TikTok & Co. per le imprese va oltre le semplici vendite dirette

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Non sempre le interviste regalano frasi chiare al punto da far subito capire che aria tira su un certo tema. Ma a volte capita. «Il social shopping è un grande strumento, ma si sbaglia a considerarlo un ulteriore canale di revenue: è innanzitutto un canale di scoperta del marchio, che diventa fondamentale per generare poi revenue». La frase è di Jarvis Macchi, Global Head of Social Media di EssilorLuxottica. Coordina una sessantina di persone per la gestione social dei loro 36 brand, con 18 mila negozi di proprietà nel mondo. I numeri servono a solleticare con l’immaginazione il volume dei potenziali acquisti, ma anche a ricordare che è un Gruppo dove il servizio online di Customer care è stato affidato ai Social Concierge, Community Manager prima minuziosamente formati, preparati, educati a un nuovo rapporto coi consumatori.

I numeri del social shopping

Per avere un’idea dell’impatto del social shopping, aiuta il report di fine 2023 pubblicato da Statista, il sito tedesco che rende disponibili dati raccolti da istituzioni attive in ambito di ricerca e mercato, così come in campo economico. Prendendo in esame l’arco temporale 2022-2030, le vendite avvenute a livello mondiale tramite social media è stato stimato in 992 miliardi di dollari e le previsioni, in prospettiva, parlano di tendenze in aumento fino a raggiungere 8,5 trilioni di dollari entro il 2030.
Ma in Italia? La cultura dell’acquisto è ancora diversa rispetto agli Usa, ma sempre più disintermediata anche da noi; facendo attenzione a non confondere il concetto di e-commerce con quello più evoluto di social commerce – incentrato sulla multidimensionalità della customer experience, attraverso un potente coinvolgimento del consumatore sul social network di riferimento – né con quello, appunto, di social shopping – dove i social media costituiscono strumento fondamentale sia per scegliere che per valutare un prodotto – i dati 2022 parlano di 48,1 miliardi di euro per il nostro e-commerce, segnando un +20% rispetto al 2021.
Vale anche la pena misurare il bacino di utenti attivi sui tre social media che stanno sul podio commerciale a livello globale (età 16-64): dati 2023 aggiornano a 2,958 miliardi quelli di Facebook, 2 miliardi quelli di Instagram e 1,05 miliardi per TikTok. Anche in Italia il social più seguito è Facebook con 29 milioni, segue Instagram con 27,3; mentre TikTok conta 14 milioni di utenti attivi. Quanto a social shopping, in Italia 37,3 milioni di persone acquistano regolarmente prodotti (B2C) e il 47,1% degli italiani tra i 16 e i 64 anni compie almeno un acquisto online a settimana sui social.

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Social, il primo passo nella scoperta del prodotto

Jarvis Macchi premette subito che bisogna fare attenzione quando si utilizza il termine social shopping. «Non possiamo pensare che sia una tendenza consolidata solo adesso, è vitale già da tempo. Diversi anni fa Boston Consulting Group riferiva che almeno il 60% degli acquisti, ovunque vengano conclusi, sono influenzati e determinati dal digitale. Così come i numeri pre-pandemia del 2019 confermavano che due americani su tre avevano scelto il regalo di Natale da lì. Dobbiamo pensare che nelle persone in navigazione sui social scatti una sorta di “voglio comprare proprio questo”: ma non vuol dire che l’acquisto avverrà tramite social, è possibile che ci si rechi poi nel negozio sotto casa o in un multibrand o, ancora, si approdi sull’e-commerce. È solo dagli ultimi due o tre anni che l’acquisto si può concludere anche su piattaforme social e solo negli Stati Uniti».

L’aspetto interessante è che i social media portano traffico ai siti e-commerce, tanto, tantissimo traffico, ma, se si vanno a vedere gli analytics, la metà delle persone che guardano il catalogo e-commerce non fa parte dei follower. Tradotto? Il social è fondamentale nella prima fase di conoscenza col consumatore, è il primo passo nella scoperta del prodotto, spesso ancor prima della scoperta del brand. Non è che i siti di e-commerce abbiano perso di importanza, le persone li usano ancora, ma con il social shopping è cambiata la logica.
Davanti al social shopping c’è anche da chiedersi come cambieranno, in prospettiva, gli approcci delle stesse aziende, le loro organizzazioni interne, i servizi offerti. «Basta vedere come i Marketing Director delle aziende provengano sempre più spesso dal digitale piuttosto che dal marketing tradizionale», continua Macchi. «Poi oggi hanno molto più budget a disposizione. Le aziende devono capire che non esiste più un marketing digitale e un marketing tradizionale: devono strutturare una strategia che pensi e viva digitale. E non è un caso se uno dei progetti in assoluto più di successo fatto in EssilorLuxottica è stato un progetto “retail” quando a Milano, sotto Natale, le vetrine di Salmoiraghi & Viganò furono riempite di messaggi realizzati dall’artista Pietro Terzini. Migliaia di persone, passando, hanno fatto foto alla vetrina, taggando Terzini e Salmoiraghi. La domanda è: questa era una campagna fisica o una campagna social? Per rispondere dovremmo ricordarci che oggigiorno anche l’esposizione social delle persone può e deve essere considerata come un media».

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In cosa sbagliano le aziende

Lo sbaglio che di solito compiono le aziende, ragionando a comparti, sarebbe in realtà evitabile, secondo il manager di EssilorLuxottica: «L’errore comune è pensare che e-commerce e social media siano una cosa e il retail un’altra: acquistare è invece un percorso di omnicanalità e lo è da molto. Incide parecchio anche il remind che si attiva nel consumatore: la cosa che oggi si può fare in più con i social media è che, se sia ha il catalogo di un brand che interessa, intanto lo si può inserire nella propria wishlist e ricordarselo mentre ci si trova al centro commerciale o in giro. Vendere e comprare sono diventati due mondi senza confini». Le aziende più grandi, quelle con gli occhi sul mondo, traducono con maggiore flessibilità l’idea che vendere e comprare sia un’operazione multicanale, il dubbio viene con le pmi, spesso incapaci di pensarlo, ancor prima che di agirlo. «Volendo, anche loro potrebbero, perché è questione di approccio e non di budget. Puoi anche investire tanto economicamente, ma non andare dove vorresti se fai questo passo falso: i Marketing Director dimenticano di essere anche loro consumatori, sarebbe più funzionale se uscissero dal ruolo e ragionassero di più in termini di desideri e abitudini quotidiane».
Anche la fascia generazionale più giovane è presa in considerazione quando si parla di social shopping per chi, come loro, ha in testa poche alternative all’acquisto fisico. «Le aziende cadono anche su questo, il mito della Gen Z le porta fuori strada perché non è una generazione omogenea come vorrebbero farci credere ma che ha dei sottoinsiemi, con valori e interessi diversi, come in tutte le generazioni precedenti».

Gli ostacoli del social shopping

L’esperienza d’acquisto in check-out diretto sui social media non è così fluida quanto quella che è possibile fare dal sito ufficiale dei brand, anche in versione mobile: non solo è molto più macchinoso come processo di acquisto, ma spesso subiamo anche un bias cognitivo. È legato al fatto che, acquistando ad esempio su Meta, che come quasi tutti mette un payment gateway sulla carta di credito con cui perfezioniamo l’acquisto, di istinto ci scatta un dubbio di privacy. Un dubbio sottile, per lo più legato alle generazioni che non sono nate e cresciute col digitale: per i giovani, invece, il bias non trova proprio casa nei loro pensieri. Sappiamo che i circuiti sono sicuri – dovrebbero esserlo – ma nel consumatore resta comunque la disagevole sensazione di lasciare i dati a Meta. «Sul sito del brand si spalanca un orizzonte diverso, più completo: il prodotto te lo guardi, ti leggi bene le specifiche, fai i confronti con altri prodotti simili. I social media sono straordinari per scoprire cosa vuoi e cosa ti piace, per imbatterti in un nuovo prodotto, ma alla fine l’acquisto il consumatore lo chiude dove ritiene che gli sia più comodo. Altra cosa è quando la piccola azienda, a volte microscopica ma artigianale, che ha solo lo shop su Instagram, ti conquista all’istante e tu vuoi quell’oggetto in quel momento, e lo devi comprare per forza lì», conclude Macchi.


Articolo pubblicato su Business People di marzo 2024. Scarica il numero o abbonati qui 

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