Fondo Sovrano: sì, no, forse…

Con il nuovo governo il tema è tornato in auge con la speranza che si possano emulare i rendimenti finanziari di Norvegia, Qatar e Kuwait, oltre a proteggere il made in Italy. Ma le premesse sarebbero molto diverse e le risorse poche. Anche se potrebbe essere più utile muoversi a livello europeo…

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Nell’eterna dicotomia tra Stato e mercato, la bilancia oscilla da sempre da un lato o dall’altro a seconda del ciclo economico. Stavolta l’obiettivo è ambizioso, ma le risorse non sembrano ancora all’altezza dei propositi. Un miliardo di euro per tutelare (e in­vestire su) imprese ritenute strategiche «rischiano di essere irrilevanti, tanto da non notarle nemmeno se la misura pretende di configurarsi come una politica industria­le», segnala l’economista Innocenzo Cipolletta. Il numero uno del Fondo di Investimento ita­liano e presidente di Aifi, l’associazione del private equity, è un buon punto di osservazione per capire la Melonomics, l’impianto (e la stagione) di politica economica inaugurata dal governo a guida Fratelli d’Italia.

Perché si torna a parlare di Fondo Sovrano in Italia

Servirebbe, sostiene, almeno un multiplo di otto: «Otto miliardi che moltiplicati con l’intervento di capitali privati porterebbero le munizioni a 15-20 miliardi», registra l’ex presidente di Ferrovie. L’interventismo in protezione del made in Italy, cifra del nuovo esecutivo, però viene messo in relazione alla necessità di tutelare le filiere critiche per il futuro del Paese. Come la necessità di approvvigionamento strutturale di materie prime fondamentali per la transizione energetica all’elettrico e alle fonti rinnovabili.

D’altronde il tema della sovranità (e dell’indipendenza economica) del Paese è strettamente correlato alla geopolitica e al nuovo mondo inaugurato dall’invasione russa dell’Ucraina, che ha determinato il disaccoppiamento delle economie tra Est e Ovest e, dunque, una profonda contrapposizione tra Stati Uniti e Cina, che ha ormai inglobato Mosca nella sua sfera d’influenza.

La differenza dei fondi in Norvegia, Qatar e Kuwait

Per questo si torna a parlare di Fondo Sovrano dell’Italia, immaginando, almeno nelle aspettative e nelle dichiarazioni politiche, che si possa realizzarlo emulando i favolosi rendimenti finanziari dei benchmark globali come quelli di Norvegia, Qatar e Kuwait che però «ragionano da fondi di risparmio che puntano al massimo ritorno, ma non sono indirizzati a obiettivi di politica industriale. Soprattutto investono all’estero con un’ampia diversificazione settoriale e territoriale proprio per non perdere soldi», osserva Cipolletta.

Senza dimenticare che investono i miliardi dei proventi di gas e petrolio per garantire la rendita pensionistica dei loro connazionali, mentre l’Italia è sprovvista di materie prime energetiche di quelle dimensioni.

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Un’immagine del Kuwait, uno dei Paesi dove i Fondi Sovrani, a differenza di quello ipotizzato per l’Italia, ragionano da fondi di risparmio che puntano al massimo ritorno e non sono indirizzati a obiettivi di politica industriale (foto © iStockPhoto)

Gli obiettivi del governo italiano

Il governo invece sta lavorando per strutturare questo nuovo strumento nel Decreto per il made in Italy. Il primo obiettivo, dicevamo, è il sostegno alle filiere strategiche della nostra produzione nazionale attraverso un Fondo Sovrano che servirebbe a canalizzare anche gli interventi finanziari dei fondi pensione, del sistema assicurativo italiano, di altri attori pubblici e privati che per consuetudine (e scarsa propensione al rischio) dirottano i risparmi degli italiani verso l’azionario Usa e l’obbligazionario dei titoli di Stato. E molto raramente sulle piccole-medie aziende italiane protagoniste del boom delle esportazioni che hanno trascinato la nostra bilancia commerciale negli ultimi anni.

Per migliorare la cinghia di trasmissione all’economia reale al Fondo Sovrano, viene dato mandato di investire a condizioni di mercato in due tipologie di imprese: quelle definite «ad alto potenziale», e quelle che «in ragione della rilevanza sistemica raggiunta possano generare importanti esternalità positive per il Paese e ridurre i costi di coordinamento tra gli attori delle filiere coinvolte».

Per farlo però servirà la predisposizione di un decreto attuativo del ministero del Tesoro di concerto con il neo-ministero per il made in Italy guidato da Adolfo Urso, che definisca le modalità e le condizioni nel rispetto della normativa europea sugli aiuti di Stato.

La volontà è quella di trasformare il Fondo Patrimonio Rilancio, costruito dal secondo governo Conte e gestito da Cassa Depositi e Prestiti con una dotazione finanziaria fino a 50 miliardi, in un fondo di fondi con gli stessi incentivi fiscali previsti per i Pir, i piani individuali di risparmio destinati alla clientela retail, coinvolgendo anche le maggiori società di gestione del risparmio.

Fondo Sovrano in Italia: c’è il rischio di un nuovo Iri?

È chiaro che riemerge carsica la tentazione di costruire un nuovo Iri, l’istituto per la ricostruzione industriale che nel secondo Dopoguerra fino alla fine degli anni 80, pur con alcuni indiscutibili meriti, finì per alimentare il debito pubblico portando alla drammatica crisi della Lira del ‘92 e alla inevitabile stagione di privatizzazioni per entrare nell’euro e nel rapporto deficit-pil sancito dal Trattato di Maastricht.

Se fosse piegato a una procedura di investimento diretto del ministero dell’Economia dentro singole aziende, di fatto si creerebbe una logica di partecipazioni pubbliche che rinverdirebbe quella stagione e gli errori che ne determinarono il fallimento. Per la verità, osserva Ugo Arrigo, esperto di finanza pubblica e docente all’università Bicocca di Milano, «i primi 40 anni dell’Iri sono stati il detonatore del boom economico e dello sviluppo industriale del Paese almeno fino allo choc petrolifero del ‘73.

Dunque, non tutto di quella stagione va buttato al macero, anche perché c’era una sofisticata cultura manageriale nelle grandi imprese di Stato che si annacquò quando il prezzo delle commodity si infiammò costringendo lo Stato a intervenire nella gestione societaria delle partecipate statali, con la conseguenza di agire secondo interventi politici influenzati da variabili elettoralistiche che costituirono una profonda distorsione del rapporto tra Stato e mercato».

Però, questo rischio si può stemperare configurandolo in maniera intelligente. Riflette Arrigo che se «c’è intermediazione degli operatori privati e partecipazione di minoranza, non c’è il rischio Iri. Quel rischio lo vedo più direttamente nella Cdp, direttamente posseduta dal Mef e presente in una quantità di imprese. Un rischio che è stato temperato dalla presenza delle Fondazioni ex bancarie nel capitale sociale». D’altronde, ragiona Arrigo, «in Italia il capitalismo privato risulta spesso deficitario, c’è la storica mancanza della grande industria, un’insufficienza del capitalismo diffuso, per cui mi dispiace ammetterlo da liberale quale sono, ma il pubblico deve avere una funzione di supplenza per sviluppare le filiere che ritiene strategiche».

Storicamente però, i fondi sovrani si sono tenuti alla larga dell’Italia per quella che viene definita l’incertezza del diritto: cioè il cambiamento delle norme in corso d’opera che ha determinato un alto rischio di contenzioso, soprattutto nella realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche. Essendo capitale paziente, aspettative di rendimento non speculative, posizioni poco attive nella governance, i Fondi sovrani che gli Stati possiedono lavorano diversificando gli investimenti, entrando nelle aziende di altri Paesi. In Italia lo hanno fatto negli ultimi anni soprattutto nelle banche e nell’immobiliare, come gli alberghi. Soldi, in genere, utili per la crescita delle imprese, affiancati ad altri capitali.

Risparmiare d’altronde è una virtù, accumulare liquidità però un po’ meno. In Italia, con la pandemia e il mutare delle abitudini, il valore dei depositi bancari era salito nel 2020 dell’11%, cioè di 160 miliardi, toccando la cifra record di 1.737 miliardi. Sono soldi che, dopo tre anni, andrebbero investiti, bene e senza troppi rischi. Urgono dunque strumenti d’investimento adatti allo scopo e ai prudenti risparmiatori italiani, e i cosiddetti Pir sono difficilmente posizionabili alla clientela al dettaglio dopo anni di scandali – il caso Parmalat insegna, quello delle banche venete anche – acuiti da una vigilanza non troppo attenta.

Ora però la dinamica della raccolta diretta complessiva (depositi da clientela residente e obbligazioni) si sta invertendo tanto da risultare in calo dello 0,9%. I depositi stanno scendendo di circa 18,7 miliardi al mese rispetto a un anno prima, per effetto dell’alta inflazione che erode i risparmi, per assicurare il mantenimento degli stessi stili di vita. Ed è un delitto considerando che il rendimento sui conti correnti garantito dalle banche agli italiani è ancora modesto nonostante la politica restrittiva della Bce, che alzando i tassi interbancari garantisce come effetto indiretto quello di alzare i ricavi degli istituti.

Ad aprile 2023, il tasso di interesse medio sul totale della raccolta bancaria da clientela (somma di depositi, obbligazioni e pronti contro termine in euro a famiglie e società non finanziarie) è in Italia cresciuto allo 0,82%. Ma il tasso praticato sui soli depositi in conto corrente è lo 0,29%. Un’inezia considerando l’inflazione quasi a doppia cifra trascinata dai rincari dei beni energetici, ormai scaricati su tutti i prodotti di largo consumo.

L’ipotesi di un Fondo Sovrano europeo

Probabilmente per ammontare e investimenti sarebbe molto più utile un Fondo Sovrano comune dell’Europa, non a caso uno dei pilastri del Green Deal Industrial Plan presentato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. «Il fondo per la sovranità si incentra su una idea: abbiamo bisogno di progetti europei comuni che si basino su tecnologie all’avanguardia e vogliamo garantire che queste siano disponibili in tutta l’Ue», ha detto la presidente della Commissione Ue. «Per questo progetto comune è necessario uno strumento di finanziamento comune europeo. Riesamineremo il bilancio pluriennale, ma con gli Stati membri dovremo valutare altre possibilità di finanziamento».

Una delle sfide chiave riguarda la produzione di microprocessori, i cervelloni di tutti i nostri dispositivi tech, comprese le nostre automobili. L’Europa ha già messo a terra un Chip industrial act attraendo gli investimenti delle multinazionali Usa di settore, come Intel. Ma per realizzarli servono materie prime critiche come litio, cobalto, manganese, che per il 60% sono detenute, a livello globale, dalla Cina, che ha strappato concessioni decennali in Sudamerica e Africa per estrarle. Per questo Europa e Stati Uniti stanno cercando di correre ai ripari, considerando che il primo produttore al mondo di microchip si chiama Taiwan. Non è un caso che sia sotto minaccia di Pechino.


Questo articolo è tratto dal numero di Business People di luglio 2023, scarica il numero o abbonati qui

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