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Gusto

Bianchello Doc, il nettare del Metauro

Sui pendii della valle marchigiana che ospita l’omonimo fiume, nasce il Bianchello, piccola Doc dell’Italia centrale dal passato importante. Ecco i vini da non perdere

Cosa rende un vino “minerale”? Cosa spinge gli appassionati a innamorarsi di una piccola Doc dell’Italia centrale, che prima d’ora non avevamo mai sentito nominare? Possono un paesaggio e un vino influire sul corso degli eventi storici? Se cercate la risposta a queste tre domande, la potete trovare in questa valle marchigiana che ospita il fiume Metauro e sui cui pendii cresce il vino Bianchello, una Doc ormai più che cinquantenne in provincia di Pesaro-Urbino, nella valle dell’omonimo fiume caratterizzata da una discreta elevazione e un microclima che garantisce freschezza e chiarezza di profumi.

Per capire di cosa stiamo parlando, pensate al celebre dittico di Piero della Francesca che raffigura i signori di Urbino, Federico da Montefeltro e sua moglie Battista Sforza: sotto il mento del primo si distingue bene il Monte Franzoso, un punto rimasto invariato nei secoli, che spicca nella Piana del Metauro. Tornando indietro di centinaia di anni, fu l’antenato dell’odierno Bianchello del Metauro a contribuire nel salvare la Repubblica romana da Asdrubale, che finì sconfitto nella battaglia del 22 giugno 207 a.C.: pare che una parte dell’esercito cartaginese, la sera prima dello scontro, avesse alzato un po’ troppo il gomito con il vino della zona.

Vitigno principale di questa Doc è il Biancame, un clone di Trebbiano toscano con talvolta una piccola parte di Malvasia nel blend. Come tutti i cloni di Trebbiano, il Biancame non sprigiona profumi intensi né avvolgenti, “tropicaleggianti” o immediatamente riconoscibili, ma vanta un fascino sottile che conquista assaggio dopo assaggio e, soprattutto, quando lo si porta in tavola, magari su specialità locali come il brodetto fanese, il ciauscolo, la crescia sfogliata, in preparazioni di vari piatti cui il tartufo dona complessità e intreccio, e pesci con nota grassa come rombo o coda di rospo. I produttori sono riusciti a dargli riconoscibilità, struttura e, ciascuno a suo modo, sono riusciti a declinarlo in versioni intriganti. Non mancano quelle che strizzano l’occhio ai prodotti naturali, le bollicine e versioni passite, ma soprattutto colpisce l’altissimo livello medio della produzione. Pensiamo a Bruscia e il loro Tuf con belle note di canfora, gelsomino e pepe bianco, lieve fruttato, fresco e animato, ma anche al loro Lubác 2017, burroso e nocciolato. In casa Fiorini, la signora del Bianchello, assaggiamo l’Andy, ricco e candito, e il Tenuta Campioli, balsamico e fiorito, con sapidità e croccantezza. Altra importante azienda è Terracruda con il Campodarchi, da vendemmia tardiva e barrique, e il Boccalino floreale e piccante; da non dimenticare, poi, la figura di Cesare Mariotti con il suo “superiore” erbaceo, mentolato e agrumato, dal sorso ammaliante, di bella profondità.

Villaligi produce l’Albaspino, molto floreale, sapido e agrumato, mentre dal Conventino di Monteciccardo segnaliamo “Il famoso nel convento”, dal sentore tropicale, e il Brecce di Tufo, che racchiude molte delle note più belle che potete trovare in questi vini, ovvero tiglio robinia e tocco di ginestra, vetiver e spezie termali, legno ben presente, che non asciuga il sorso, ma lo prolunga. Da Cignano ecco il San Leone, sorso diretto e mentolato con ritorni su arancio, da Di Sante il Giglio, frutto nitido, nespole, susine e mele, sorso dotato di sostanza. Tra le bollicine segnaliamo il Conte Giulio di Bruscia, un Brut Metodo Classico 36 mesi, con intensi aromi floreali. Tante boccate di aria fresca, come quella che dettero speranza di vittoria a Winston Churchill, che qui a Montemaggiore (vicino alla cantina Mariotti) si fermò a scrutare la formazione delle linee tedesche della linea gotica nell’agosto del 1944: come lui allora, cerchiamo oggi un modo per affrontare con leggerezza e positività un presente complicato.