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Cibo: ok, il prezzo è ingiusto!

L’inflazione galoppante conseguente la pandemia e le tensioni geopolitiche stanno generando allarmismo, ma la verità è che da tempo l’industria alimentare e la distribuzione fanno pagare il cibo meno di quanto costi produrlo. Ecco perché e chi ne paga le conseguenze

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Non c’è alcun settore su cui non sia scesa la parola crisi, ma chi segue il filo dell’allarmismo non solo va poco lontano ma ci arriva con le idee distorte. A osservare l’industria del cibo senza troppa malizia, un dato è chiaro: molto spesso, per non dire quasi sempre, il prezzo del prodotto è di gran lunga al di sotto della catena del valore che contiene. «I costi sociali e ambientali delle emissioni di gas derivanti dalle produzioni agricole e dagli allevamenti non sono minimamente considerati nel prezzo dei prodotti né dall’intera catena di produzione. Questa distorsione dei prezzi di mercato è un vero e proprio buco: l’unica strada per provare a contenere i danni di una logica senza precedenti è quella di iniziare a quantificare e monetizzare quei costi». Tagliavano corto e andavano al sodo, già nell’introduzione del loro contributo su Nature pubblicato quasi due anni fa, il ricercatore Maximilien Pieper e i suoi colleghi da tre diverse università tedesche: nel prezzo di mercato del cibo non viene minimamente considerato, né percepito dai consumatori, quanto pesa l’impatto sociale, ambientale, energetico. Il cibo, a differenza di altri prodotti, in maniera paradossale è quello che in proporzione subisce i rincari minori rispetto a tutto ciò che contiene anche “culturalmente”.

Il prezzo, alla fine, suona ingiusto per chi lo approccia in modo onesto. Di certo la pandemia e il conflitto Russia-Ucraina hanno catalizzato l’attenzione anche sulla questione alimentare, ma ogni forma di propaganda emergenziale finisce per deviare dalle effettive radici dei problemi. Il problema, quando si parla di industria del cibo, è che imprese e consumatori se la giocano sul prezzo, ma la costruzione di un prezzo “equo” è operazione delicata e complessa. La più ardua.

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Anche il direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, nel corso del settimo congresso nazionale Uila, l’Unione italiana dei lavori agroalimentari, ha trovato il modo per rimarcare il legame tra prezzo dei prodotti e costo del lavoro. Tutti valori che spariscono mediamente da qualsiasi prezzo di mercato: «L’illegalità del lavoro in agricoltura», ha sottolineato, «si inquadra nel tema del lavoro sommerso, che è un tema di politica economica, e riguarda non solo la regolarità del lavoro ma anche l’etica dell’impresa e l’etica del lavoro. In agricoltura spesso lo sfruttamento del lavoro è dovuto al prezzo vile del prodotto, che spinge le pmi a scaricare sui lavoratori i costi anche della distribuzione e della logistica. Non basta aumentare le ispezioni, serve una seria riflessione sulla filiera. A sei anni dalla legge 199 sul contrasto al caporalato, abbiamo ancora la metà delle norme non applicate».

Resta il fatto che siamo figli del sottocosto, anche se l’Agcom e i report seri dedicano da tempo pagine e pagine alle crude logiche di marketing nelle strategie di vendita su cui si regge una delle pratiche più diffuse nella grande distribuzione e che, di fatto, alla fine rivela che di risparmio in tasca ce n’è ben poco. Vallo a spiegare ai consumatori, direbbe qualcuno. Noi ci abbiamo provato. Con l’aiuto di Giancarlo Foschi, a.d. di Orogel, ed Edie Mukiibi, presidente di Slow Food, siamo andati dietro le quinte dell’industria del cibo per tirare fuori qualche utile dubbio e qualche conferma.

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