Dopo l’editoriale di febbraio di Business People (leggi) e l’intervista a Giorgio Vittadini, presidente della fondazione per la sussidiarietà (leggi), continua il nostro viaggio alla ricerca del significato del concetto di ricchezza e delle possibilità e dei percorsi di sviluppo ai tempi della crisi
Massimo Cacciari non lo sa. Se da una parte la sua convinzione granitica, è che rispetto al sistema sociale capitalistico, le cose in Italia come nel mondo sono destinate a non cambiare (almeno non nei prossimi secoli), d’altra parte il filosofo, ex sindaco di Venezia, oggi prorettore per le Scienze umanistiche dell’Università Vita-Salute San Raffaele, pensa che finalmente nel nostro Paese si sia aperto un varco. Un passaggio attraverso il quale il modo di vivere e di competere sulla scena internazionale, sul piano economico e finanziario, possa affrontare la sua necessaria evoluzione. Questa discontinuità, naturalmente, è rappresentata dal governo Monti. Ma sarà sufficiente perché le cose si sblocchino davvero? «È un’opportunità. Ma non ho la minima idea se questa opportunità sarà colta o meno».
Professor Cacciari, qui si fa un gran parlare di sobrietà. È perché sono davvero cambiate le cose o si tratta solo di una sovrastruttura, di propaganda, visto che i soldi comunque non ci sono?
Il sistema di produzione attuale, il sistema sociale capitalistico, è qualcosa che intrinsecamente concepisce la sobrietà come quel momento di “astinenza” essenziale alla formazione del risparmio, attraverso cui poi si genera nuovo investimento. È una rinuncia finalizzata allo sviluppo della produzione stessa di nuovi beni, e quindi anche dello stesso consumo. Non ha alcun senso parlare di sobrietà di ordine etico-morale in questo modello sociale, la cui finalità ormai non è più la produzione del bene materiale, bensì del consumo stesso. Il capitalista, anzi diciamo l’imprenditore, semplicemente rinuncia al consumo immediato per investire, e allargare i profitti in un secondo momento. Se la collochiamo all’interno di questo contesto storico, la parola sobrietà non significa nulla. Vogliamo metterla sul piano etico-morale? Secondo me, significa ancora meno. In quel senso converrebbe che parlassimo di un’idea di autentica povertà, che non riguarda il non possedere, ma il sentirsi ricchi del sé.
Ma tra ricerca della sostenibilità e riformulazione delle teorie dello sviluppo non necessariamente orientato alla crescita sempre e comunque, qualcuno intravede una trasformazione del modello…
Ma cosa vuole? Cambiare il modello capitalistico?! È chiaro che non è più il capitalismo fondato sulla produzione di beni materiali e basta. Quello con cui abbiamo a che fare è un capitalismo fondato sull’innovazione, sulla ricerca scientifica, e anche sulla produzione di ricerca scientifica: la ricerca non è mica più un’invenzione del saggio solitario! Oggi investire in grandi laboratori di ricerca significa spendere moltissimo denaro in settori che comportano rischi enormi. Da questo punto di vista cambia radicalmente la situazione. Ma non cambia affatto dal punto di vista della produzione di beni materiali o immateriali volti al fine di aumentare la produzione medesima, aumentare il consumo.
La ricchezza si misura col consumo?
La ricchezza è il denaro che sta all’inizio del ciclo di produzione, perché senza denaro non si può investire. Quel principio non cambia, anche se poi come imprenditore, nel momento in cui mi procuro il capitale in banca, per esempio, sono soggetto a politiche finanziarie che possono contraddire le logiche delle politiche imprenditoriali industriali. Ma il modello di fondo, ripeto, non cambia: il denaro iniziale viene investito in beni materiali o immateriali, che sia per produrre caramelle o per sostenere la ricerca scientifica non c’è differenza. Perché alla fine quelle caramelle devono essere consumate, e quelle ricerche devono incarnarsi in beni vendibili!
Quindi, non se ne esce.
Può darsi che questo modello collassi, che ne so. Può darsi che il capitalismo abbia i secoli contati, come diceva Giorgio Ruffolo. Ma al momento, a livello planetario, è questo il modello dominante. Siamo totalmente immersi in questo sistema. E sobrietà, rinuncia, astinenza hanno senso solo in questo contesto. Al di fuori di questo sistema ci sono soltanto i grandi temi filosofici teologici, e allora sobrietà significa conoscere se stessi e considerare i beni che vengono da fuori come accidenti, inessenziali, che non alterano la pura conoscenza di sé.
Al di là del modello teorico, come si supera la situazione di stasi nell’economia italiana? Cosa dice il Cacciari politico?
È evidente che, rispetto ai grandi flussi finanziari economici e produttivi, l’Europa ha una chance di continuare a essere competitiva sul piano internazionale solo se investirà in capitale umano, ricerca, innovazione. Tutto questo però è stato predicato, non praticato. Il modello va completamente trasformato: fino a ora le nostre priorità sono state di genere totalmente conservatore, abbiamo sempre e solo avuto l’obiettivo di conservare i diritti acquisiti, di conservare le forme di organizzazione del lavoro già esistenti, di difendere il già stato. Ma ora siamo a carte e quarantotto, in Grecia come in Italia, ma direi quasi anche in Germania. Il modello complessivo di welfare europeo va ripensato completamente, in vista delle nuove generazioni, di chi non è ancora nato, e soprattutto della competizione futura con i nuovi grandi colossi imperiali, come l’India, la Cina, il Brasile, ma anche l’Africa, in prospettiva. Spero si rendano conto che l’Africa non continuerà a essere governata nel modo infernale in cui lo è stata fino a ora: è chiaro che succederà qualcosa di analogo a quel che sta succedendo adesso in America latina o in Cina.
Da come parla pare quasi che l’Europa sia un blocco unico…
Assolutamente, al contrario! Ma queste arretratezze sono più o meno palesi in tutti i Paesi europei. Poi, chiaro, se il Vecchio continente vuole affrontare queste sfide deve diventare una potenza politica ed economica unitaria. E oggi è lungi mille miglia dall’esserlo.
Non è che l’’Italia è duemila miglia più lontana?
No, assolutamente. I paragoni con la Grecia e con la Spagna sono pazzie prive di ogni senso. L’Italia ha un’industria piccola e media articolata in tanti settori, un’industria non monoculturale, vastissima, e ormai anche nel mezzogiorno ci sono realtà importanti in questo senso. Il Paese continua ad avere un risparmio privato che rispetto al Pil è, se non vado errato, il più alto d’Europa. E non dimentichiamoci che noi abbiano opportunità di crescita in alcuni campi (come il turismo, che per altri mercati non è un’opzione) incomparabili rispetto ad altri Paesi. Quindi credo che l’Italia, se finalmente governata, cosa che da 30 anni non è, possa posizionarsi in Europa addirittura meglio della Germania.
E la nostra classe dirigente è preparata per questo?
No, nel modo più assoluto no. Direi che è evidente, altrimenti non saremmo nella merda come invece siamo. La discontinuità si è prodotta, era necessario che si aprisse un vuoto. Ora vediamo se le forze politiche sapranno reagire e contrastare l’andazzo dell’ultimo ventennio, presentandosi alle prossime elezioni con programmi e uomini credibili.
Il tema del ricambio, i giovani che mancano…
Tutto il mio discorso è per i giovani. Dobbiamo sostenere l’interesse delle nuove generazioni.
Allora c’è speranza? Lei ha recentemente scritto sull’Espresso che da noi il futuro è al servizio del passato.
Il futuro adesso non c’è, è il presente a essere al servizio del passato: questa classe dirigente, ivi compresa Confindustria, rappresenta solo interessi scorporati che hanno difeso lo status quo. Si tratta di capire se dopo essere andati in malora per difendere il passato, e dopo aver compreso l’impossibilità di continuare su questa strada (la nomina del governo Monti testimonia questa impossibilità), ora sussistono le condizioni per cui forse qualcosa di nuovo possa nascere da qui alle elezioni del 2013. Le condizioni ci sono. Chissà se poi verranno sfruttate. Non ne ho la più pallida idea.
Lo stesso discorso vale per l’ambito accademico?
Quando parlo di classi dirigenti faccio un discorso in cui metto dentro tutto: industriali, politici, accademici, anche giornalisti: e ognuno difende il proprio orticello e la situazione che ha ereditato, di rendita, passabilmente buona. Ma difendere le rendite in momenti come questo significa perdere il patrimonio. Speriamo che lo si sia capito. E, se lo si è capito, speriamo che poi si passi ad azioni coerenti.
In fondo si sente ottimista…
No, mi sento meno disperato. La situazione non è più quella di due tre anni fa. Viviamo un momento di rottura, di discontinuità. Questa discontinuità potrebbe rientrare, ma potrebbe anche poi svolgersi in senso positivo con l’introduzione di un nuovo modello di welfare, di formazione, di scolarità.
È un salto quel che dobbiamo compiere?
I salti non si fanno mai. Anzi, una volta si facevano i salti. Oggi si è creato un passaggio, forse virtuoso. Bisogna attraversarlo.
E quale sarà il suo ruolo in questo passaggio forse virtuoso?
Nessuno, basta. Non posso avere più ruoli per raggiunti limiti d’età. Non ho più ruoli da svolgere se non cercare di fare bene il mio lavoro che è studiare, leggere e scrivere.
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