Pizza, business che non conosce crisi (e “fa gola” a fondi e imprenditori)

È un prodotto tradizionale che, al contempo, si presta a infinite variazioni di gusto e di… portafoglio. Così sempre più imprenditori diversificano le loro attività investendo su catene di locali e franchising dedicati a questo piatto simbolo dell’italianità nonché comfort food per eccellenza

Dici “stasera pizza” ed è subito tutto chiaro. Un prodotto iconico e un rituale di consumo tanto forte e identitario quanto aperto a variazioni sul tema: quel che serve per farla essere eterna e fortunata protagonista nel panorama food italiano e globale. Infatti, sulla pizza scommettono grandi fondi di investimento, e fioccano iniziative imprenditoriali per tutti i gusti. C’è la versione “lusso”, con i Crazy Pizza by Flavio Briatore, l’ultimo aperto a Milano a marzo (dopo Roma, in via Veneto, e gli apripista di Londra e Monte Carlo). Locali dove l’esperienza di consumo è nel segno della convivialità e del top di gamma, con le pizze in carta da un minimo di 14 euro, al pomodoro, a un massimo di 65 euro, con prosciutto Pata Negra Joselito. Più pop, Alice Pizza, particolarmente diffusa nelle aree commerciali extra cittadine, prima catena italiana con oltre 180 punti vendita – anche oltre confine – fondata a Roma nel 1990 da Domenico Giovannini e acquisita nel 2019 dal fondo IDeA Taste of Italy. Propone una sessantina di ricette di pizza al taglio, nella versione romana in teglia e venduta al peso. Altro stile per le pizze sostenibili e metropolitane di Matteo e Salvatore Aloe, gli imprenditori che nel 2010 hanno creato Berberé a Bologna: oggi il marchio conta 15 locali in Italia e uno a Londra, con 200 dipendenti in tutto, e ha appena visto l’ingresso nel capitale, con una quota del 23,5%, di Miscusi, catena di ristorazione specializzata in pasta fresca (i fratelli Aloe restano alla guida dell’azienda).

Crazy Pizza, Berberé, Rossopomodoro e… le catene di pizzerie italiane

Da un concept all’altro, stavolta con l’impegno diretto di una star: a Firenze, lo scorso anno, ha aperto il primo ristorante Sophia Loren Original Italian Food. Iniziativa dell’imprenditore Luciano Cimmino, presidente di Pianoforte Holding (che controlla Yamamay e Carpisa) e un gruppo di altri soci. Tre piani, 1.500 mq e 270 coperti per il primo punto vendita, che coinvolge i big del mondo della pizza e della ristorazione: pizze di Francesco Martucci da I Masanielli di Caserta, piatti firmati da Gennaro Esposito, due stelle Michelin a Vico Equense con il ristorante Torre del Saracino, e i dolci di Carmine Di Donna, pasticcere pluripremiato e collaboratore di Esposito. Ed ora l’insegna è pronta a fare il bis a Milano, in via Cantù, a due passi dal Duomo. Guai a dimenticare il capostipite della formula moderna del ristorante- pizzeria in catena, Rossopomodoro con più di 100 locali in Italia e all’estero, dove la pizza napoletana è protagonista. Fondata a Napoli nel 1997 da Franco Manna, la società che detiene il marchio (Gruppo Sebeto) è passata di mano fino a finire, nel 2018, sotto il controllo del fondo inglese OpCapita.

Curioso il caso del brand milanese Pizzium, che da poche settimane ha aperto il 28esimo ristorante a Salerno e, pur proponendo una pizza alla napoletana, ha seguito un percorso di sviluppo opposto a quello di Rossopomodoro: partito dal Nord, sta arrivando anche a toccare le regioni del Sud Italia. Una creatura, Pizzium appunto, nata dalla sempre vivace carica imprenditoriale di Giovanni “Nanni” Arbellini con Stefano Saturnino e Ilaria Puddu, maestri del food retail che in coppia hanno creato e sviluppato più di una decina di brand nell’ultimo decennio, come Panini Durini, le pizzerie Marghe e Giolina, la pasticceria Gelsomina. Anche in questo caso è entrato in gioco un fondo, Equinox, che lo scorso anno ha acquisito il 40% delle quote della catena nata nel 2017.

Pizza: un mercato che non conosce crisi

Perché la pizza non conosce crisi? Come mai sempre più imprenditori – della ristorazione e non – puntano sempre più numerosi su locali e franchising dedicati al piatto simbolo della cucina mediterranea e dell’Italia? Spiega Carlo Meo, Ceo di Marketing & Trade, società milanese specializzata nel design dell’esperienza di consumo nel settore food: «Quello della pizza è uno dei pochi riti consolidati, atavici, fortemente identitari. Un prodotto semplice e globale – conosciuto in tutto il mondo – al quale è legato un rituale di consumo con una identità precisa. Attorno a questo tipo di prodotti e modi di vivere l’esperienza di consumo fuori casa si può fare innovazione, facendo base sulla forte universalità data dal prodotto medesimo». In altre parole, variare sul tema e sviluppare concept di ristorazione con un ampio ventaglio di possibilità. Sul gradimento universale del “prodotto pizza” ci sono pochi dubbi. Tormentone fra le ricerche in ambito food degli italiani su Google, dove è stabilmente nella top five delle ricette più cercate on line, è anche regina indiscussa del delivery, secondo i dati del quinto Osservatorio sul cibo a domicilio presentato da Just Eat.

Doxa ha anche elaborato una ricerca, commissionata da Eataly, che ha fotografato le preferenze degli italiani in materia di pizza. L’86% la mangia almeno una volta a settimana, arrivando fino a due volte (40%). L’abitudine al consumo è diffusa soprattutto tra il pubblico più giovane, di età compresa tra i 18 e i 24 anni che si spinge ad acquistarla anche tre volte a settimana. Il dato più significativo riguarda la percezione dell’alimento: non più un piatto da gustare con moderazione perché “pesante” o perché fa ingrassare (lo pensano solo rispettivamente il 5% e il 3% degli intervistati), bensì un comfort food che vede nella condivisione e convivialità i suoi punti di forza e nelle caratteristiche di leggerezza e qualità due fattori irrinunciabili.

I 4 pilastri per una pizzeria di successo

«Qualità delle farine, tecniche di lievitazione sofisticate e più lunghe, materie prime ricercate e tecnologie di cottura innovative: attorno a questi quattro pilastri si costruiscono le variazioni sul tema pizza», spiega ancora Carlo Meo di Marketing & Trade. «Gli operatori che hanno successo sono quelli che cercano di lavorare sul concetto di pizza, come fosse una tavolozza neutra sulla quale costruire l’offerta, arricchendola per giustificare un premio di prezzo. Una strategia è quella di usare ingredienti di qualità top su ricette classiche, rendendole contemporanee. Un’altra sta nel portare innovazione nella ricetta, lavorando appunto su farine, lievitazione e cottura, nella presentazione e negli abbinamenti». Tra i trend degli ultimi anni si è consolidato quello del pairing con i cocktail o con le bollicine. Meno catene e più indipendenti, in questo caso. Qualche esempio? Dal capostipite Dry a Milano, pioniere dell’abbinamento drinklievitati, a Carlo Sammarco, fuoriclasse della pizza napoletana con due locali ad Aversa (Caserta) e Frattamaggiore (Napoli), che un paio di anni fa ha lanciato una carta di 18 cocktail a base gin da proporre con le sue celebri ricette. Fino a Giolina, di nuovo a Milano, dove le pizze dal cornicione alto si gustano con cocktail mainstream, bollicine naturali o Champagne.

«La pizza presenta diversi vantaggi, che ne determinano la fortuna sul mercato», puntualizza Fabrizio Valente, Ceo della società di consulenza in ambito retail Kiki LabGruppo Promotica. «Prima di tutto la flessibilità della situazione di consumo. Si presta a un consumo semplice e accessibile, come per la classica pizzata con amici, al consumo tipo street food, fino a quello nel fine dining. Poi c’è la vera chiave del successo retail della pizza: la possibilità di standardizzare le operation. Impostate le modalità con cui seguire la lievitazione e la cottura e costruire il topping, la produzione della pizza diventa un’operazione facile da tradurre in “manuale operativo” e replicare. Da qui deriva la facilità dello sviluppo delle catene, anche in franchising. Se vogliamo, il terzo punto di forza ha una matrice un po’ più filosofica, ma non meno importante. È la rotondità: la pizza è emblema di condivisione e inclusività anche grazie alla sua forma circolare, caratteristiche perfettamente in linea con il rinnovato bisogno di socialità e condivisione che contraddistingue il periodo dopo la fase acuta del Covid».


Articolo pubblicato su Business People di giugno 2022

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