Proprietà intellettuale: si scrive IP, si legge competitività

Sempre più la proprietà intellettuale si impone come motore delle imprese creative. Per questo tutelarla costituisce la strada vincente da seguire. Abbiamo indagato quali sono gli strumenti migliori per farlo e come si muove l’Italia in questo campo

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Se ne parla per le aziende, se ne polemizza per le scuo­le, ci si scontra nel sociale: la parola è competitività, o competizione, a seconda che venga declinata in po­tenza o allo stato dei fatti. È quasi un muscolo da far sviluppare come garanzia di forza sul mer­cato: le imprese lo sanno, i corsi di forma­zione gli strizzano l’occhio, i libri si spre­cano. A proposito di letteratura, la vera spaccatura tra un prima e un dopo porta la data del 2014 e la firmava Enrico Moret­ti, a quel tempo il più giovane docente di Economia a Berkeley. La nuova geogra­fia del lavoro inquadrava il fattore vincen­te del sistema industriale statunitense nel­la concentrazione geografica dei brevetti: stavamo passando dall’economia del­la produzione a quella della conoscenza. Aveva ragione, e sono passati quasi dieci anni.

La proprietà intellettuale in Italia

L’Italia muove ora passi importan­ti verso una propria economia della cono­scenza e dell’innovazione, ma serve cultu­ra e serve tutela. Soprattutto serve ricerca. La ricerca industriale sui beni ad alta tec­nologia dovrebbe essere il vero obietti­vo d’impresa sulla scacchiera internazionale. La geografia, ancora una volta, non mente: sono i Paesi che investono di più in ricerca di base a occupare le prime po­sizioni nelle esportazioni mondiali di beni hi-tech; tradotto, i soliti: Giappone e Stati Uniti in cima alla classifica, poi Cina, Tur­chia e Regno Unito, l’Italia è in posizio­ne intermedia. I dati sono confermati da Cnr e Ircres che periodicamente monito­rano i fattori di crescita economica e che nel 2021 hanno pubblicato il loro ultimo report sull’International Journal of Computational Economics and Econometrics. I limiti italiani? Ancora pochi gli investi­menti pubblici e privati in R&S, troppo frammentata l’offerta produttiva e poco direzionata sui settori dell’alta tecnolo­gia e dell’innovazione, scarsa l’empatia tra università e imprese.

Il punto di vista delle imprese

Nessuno neghi la potenza generatrice di una competitività fatta bene. Lo confer­ma il recente Osservatorio IP 2022, pri­ma indagine sulla dinamica tra domanda e offerta di servizi di consulenza legale e brevettuale che ha coinvolto una cinquan­tina di imprese su tutto il territorio nazio­nale. Il primo dato evidente: il 95% è con­vinto che tutelare per tempo la proprietà intellettuale sia la strada vincente e, se in passato ricopriva soprattutto un ruolo di­fensivo degli asset aziendali, oggi parlare di proprietà intellettuale vuol dire genera­re altra ricchezza. L’indagine, condotta dal Centro Studi Top Legal per TopLegal Con­sulting in collaborazione con lo studio Tre­visan & Cuonzo, ha coinvolto 40 direzio­ni legali di imprese italiane nei principali settori, coprendo l’arco degli ultimi dieci anni: sulla totalità del campione hanno in­ciso il luxury & fashion al 28%, life scien­ces al 13%, food & drink per il 13% ex ae­quo con l’industria, 8% per l’automotive, i beni di consumo e Tmt, infrastrutture e trasporti al 5% e, fanalino di coda al 3%, assicurazioni e banche.

Gli investimenti in proprietà intellettuale

Entrando ancora di più nel dettaglio degli investimenti in proprie­tà intellettuale: l’80% delle aziende li ha destinati alla registrazio­ne di nuovi marchi d’impresa, in particolare nei settori fashion/luxury, food e drink. Staccata non di poco segue, con trend cre­scente, la tutela del know how nei mercati automotive, food e far­maceutico/life science: qui la percentuale è al 43%. Scendendo ancora, troviamo le innovazioni brevettate di automotive e indu­stria (40%); a chiudere, le acquisizioni/licenze di titoli di IP di ter­zi nel farmaceutico/life science (33%) e l’industrial design regi­strato nei settori fashion e automotive (25%). Commentiamo i dati con Massimo Morici, giornalista e ad­detto alla divisione analisi di Top Legal; soprattutto gli chiediamo di decifrare que­sti tre: il 75% delle imprese chiedono con­sulenza per il deposito di marchi e brevet­ti, l’88% richiede assistenza in contenziosi per violazione di diritti IP, il 59% dei bud­get aziendali va all’assistenza legale.

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Aumenta la consapevolezza del valore delle IP

«Credo sia utile dare subito una coor­dinata: il campione nazionale di azien­de che abbiamo coinvolto nell’Osservato­rio è, per oltre un 70%, rappresentativo di aziende molto strutturate, quindi con un management mediamente più evoluto e con una buona capacità di spesa. La metà delle aziende ha un fatturato che supera i 500 milioni di euro, il 30% fattura dai 100 ai 500 milioni, il 18% meno di 100 milioni. Il dato eclatante sta negli aumentati inve­stimenti sia per il diritto d’autore che per la proprietà intellettuale, vuol dire che le aziende hanno speso di più per la tutela di quelli che vengono definiti asset intan­gibili. Tradotto ancora meglio, ci dice che è aumentata la consapevolezza della loro centralità in un’ottica di business. Basta pensare all’Italia, coi suoi settori trainan­ti legati al luxury, al food, al drink, ma an­che all’universo della meccanica per capi­re quanto sia urgente la protezione di certi valori. Moltissime aziende del Nord Italia sono terziste di pregio dell’industria auto­mobilistica tedesca, per fare un esempio tra i più significativi. Il valore di un simi­le osservatorio», aggiunge Morici «sta an­che in una lettura più profonda, vale a dire aver evidenziato il desiderio imprendito­riale di tutelare consapevolmente gli investimenti in ricerca e svi­luppo interni alle aziende, così come è chiaro il peso assunto dalla consulenza chiamata in causa per tutelare preventivamente dirit­to d’autore e proprietà rispetto a una richiesta successiva di assi­stenza, atteggiamento più marcato nelle aziende medio-piccole».

Meno contenzioni per chi investe in proprietà intellettuale

Negli ultimi dieci anni, le aziende che hanno investito di più han­no ovviamente fatto registrare un sensibile calo dei contenziosi: in media, ognuna di loro è stata coinvolta in 15 contenziosi in materia di marchi, tre per i brevetti e uno solo in materia di design. «Come sistema industriale italiano, sensibilizzarci tutti alla tute­la preventiva segnerebbe un passo decisivo in termini di cultura del lavoro», prosegue Morici. «Nell’Osservatorio ci siamo chiesti anche se e quanto la pandemia avesse inciso in questa evoluzione dato che, col boom del commercio online, sono aumentati di pari passo gli illeciti, le truffe, le appropriazioni e gli utilizzi abusivi di marchi e brevetti. I nostri esperti ci hanno confermato che un peso c’è stato senz’altro e che sempre più si preferisce rivolgersi a consulenti esterni prima che la patologia vada al contenzioso. Queste fotografie aiutano a tracciare il presente per anticipare un po’ il futuro, in ogni modo torneremo a misurare prossimamente il campo della proprietà intellettuale, aggiorneremo senz’altro il nostro studio».


Questo articolo è tratto da Business People di marzo 2023, scarica il numero o abbonati qui

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