Cosa vuole dire, oggi, DE&I in Italia

Il punto di vista di Maria Cristina Bombelli, presidente di Wise Growth, società di consulenza che propone l’idea di un nuovo equilibrio globale e locale per la DE&I

DE&I in Italia - Intervista a Maria Cristina BombelliL'INTERVISTA -

L’intervista a Maria Cristina Bombelli di Wise Growth è parte di

Diversity, Equity & Inclusion: è ora di passare dalle parole ai fatti


È necessaria autorevolezza, tanta, se si vuole imbastire un’analisi di cosa voglia dire oggi DE&I in Italia, partendo dalle basi: Maria Cristina Bombelli ha tutta la stoffa per farlo, prima donna a suggerire di intraprendere un lavoro di ricerca dentro la SDA Bocconi, nel 2000, quando ancora nessuna business school italiana lo aveva nemmeno immaginato. Ne uscì il primo libro in assoluto, datato in seconda di copertina 1° gennaio 2000, data altrettanto simbolica di un’era: Soffitto di vetro e dintorni. Management al femminile. Adesso sembra preistoria, perché la cultura di impresa e il mercato del lavoro si sono poi misurati con la febbre alta delle trasformazioni non solo riguardo al genere ma anche all’inclusione in una accezione molto più estesa, ma quella preistoria aiuta a capire i trend del momento.

Diamo le coordinate mentali per arrivare a quelle culturali: cosa intendono le imprese, al loro interno, con DE&I?
Sono passati parecchi anni da quando pensai che fosse necessario passare dal gender alla diversity perché i meccanismi di esclusione erano sempre gli stessi e lo sono tuttora. Hanno a che fare con un concetto di group think, vale a dire la convinzione di essere dalla parte del pensiero dominante, giusto, migliore. Organizzare le varie Diversity Week non basta, così come sbandierare certi valori a livello di posizionamento comunicativo o chiedere lo spot a personaggi noti al grande pubblico; le imprese che incarnano davvero la DE&I fanno percorsi interni profondi e di continuità. Serve un lievito dentro le aziende e la cultura cambia, ed evolve, solo se quel lievito è fatto di persone, tutti i giorni.

Le tendenze, i trend che arrivano come onde, possono essere pericolose?
Basterebbe pensare alle derive di tutta la cultura del politically correct sulla DE&I che di fatto sta snaturando i linguaggi, le relazioni, la società stessa. Proprio da quegli Stati Uniti in cui adesso è diventato quasi impossibile vivere per l’estremizzazione del politically correct era però partita la vera spinta: in qualsiasi testo di letteratura manageriale, tutti i riferimenti bibliografici sono sempre americani perché alle spalle hanno le grandi università che fanno ricerca. In Europa sono processi diversi e più deboli, al traino degli Stati Uniti, e sarebbe impossibile imporre un modello di riferimento di matrice europea.

La contaminazione forse incide più della formazione…
Dando per scontato che ci si aspettano elevati standard di formazione, voglio dire non teoria ma focus group, dialogo, coinvolgimento, certo che comunque la contaminazione è molto più potente. Il problema davanti a questi trend non ancora recepiti a livello culturale e sostanziale è che ci si affida a un concetto prêt a porter di DE&I, non si pensa al contesto, si fa calare dall’alto il problema, con la sua risoluzione già teorica, senza localizzare la questione.

La prossima tendenza potrebbe essere contestualizzare il lavoro fatto finora?
Sarebbe il vero obiettivo. Per anni abbiamo lavorato ai temi del genere, dell’inclusione, delle generazioni ma, ora che le imprese e il business sono ambiti sempre più interculturali, non possiamo tirarci indietro sul passo più cruciale che è anche linguistico oltre che di trasposizione di valori e consuetudini diverse a seconda delle provenienze. Abbiamo ancora tante sfumature da esplorare ma dobbiamo uscire intanto da un’idea di Diversity & Inclusion come colonizzazione con cui imporsi, va cercato un nuovo equilibrio globale e locale per la DE&I.

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