Il vero nodo fu la cravatta

Gianfranco Di Natale, da 18 anni direttore generale di Sistema Moda Italia, ripercorre gli ultimi due decenni osservandoli dalla cabina di regia di un’organizzazione che è passata dall’avere un mero ruolo di rappresentanza e di servizio a un ruolo di costruttivo orientamento per le aziende

Gianfranco-Di-Natale-Sistema-Moda-Italia

L’intervento di Gianfranco Di Natale è parte di Eccellenze italiane: alla scoperta del tessile made in Italy


«Commentare dati positivi è semplice: per questo trovo utile ricostruire storicamente e culturalmente come la moda, e il tessile in particolare, ci sia arrivata sorpassando non poche crisi di settore. La prima rivoluzione, che poi è quella che ha colpito per prima l’abbigliamento maschile cosiddetto formale, trova le sue radici nella crisi bancaria prima statunitense e poi mondiale del 2008: lì iniziammo subito a vedere una battuta d’arresto che poi, nemmeno troppo sottotraccia, è proseguita negli anni fino a farsi confermare in pieno con la pandemia. Un rethinking, quindi, partito molto più lontano di quanto si pensi: un ripensamento che all’inizio non esitò a penalizzare senza sconti la cravatta, a dimostrazione che il mondo del lavoro e della moda stavano mettendo in discussione un modello intero – quello bancario, fatto di abito scuro, camicia bianca e cravatta – che aveva in un certo senso tradito la fiducia generale e da cui prendere le distanze anche in modo simbolico, tangibile, evidente. Gli anni della pandemia hanno definitivamente inciso sulle abitudini del vestire, tra smart working sempre più diffuso, aumento incredibile dell’e-commerce, limitazione della socialità e, non da ultimo, riduzione consistente del viaggiare. Inevitabilmente ne ha tratto vantaggio quella fetta di mercato legata senza dubbio allo sportswear, ma in generale ad uno stile informale. E arriviamo alla svolta positiva: i sociologi lo avevano previsto che, scavalcata la pandemia, le abitudini nel vestire sarebbero di nuovo cambiate, spingendosi verso un certo bisogno di lusso e di alto valore anche da parte di chi non se lo potrebbe permettere sulla carta. Un bisogno superiore alla sola necessità di comprare per farsi una coccola e i macro dati delle associazioni che monitorano i consumi lo confermano senza eccezioni e non solo per il luxury nella moda. Cina, Paesi Arabi e Sud America: queste le coordinate da cui arrivano le principali richieste d’acquisto ad alto livello. La nostra filiera tessile italiana, del resto, è una filiera al servizio dei grandi brand del lusso e non può che trarre beneficio da questo alto mercato internazionale: la sua performance negli ultimi due anni ha superato di gran lunga quanto fatto almeno nei dieci anni precedenti.

Aver investito nella sostenibilità, per i brand che l’hanno capito e fatto in tempi non sospetti, oggi vuol dire aver capitalizzato enormi vantaggi, non fosse altro per aver educato i propri consumatori a un prodotto di valore diverso; chi non ci ha creduto, in molti casi si è fatto intimorire dai costi alti di simili transizioni senza riuscire a vedersi in prospettiva. Peccato che i giovani, che è indubbio siano stati i pusher più efficaci sul piano culturale per promuovere il green, al momento dell’acquisto non siano in grado di fare l’ultimo passo e non è solo una questione di prezzo da sostenere, che resta una ragione più che comprensibile per la loro condizione anagrafica. Varrebbe la pena sviluppare in loro, quando si parla di moda e sostenibilità, una nuova educazione legata non solo al classico messaggio di responsabilità ecologico-ambientale in cui sono molto pronti e preparati, ma soprattutto al valore di responsabilità sociale dei consumi e di qualità del lavoro che c’è dietro un capo di moda».

© Riproduzione riservata