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Nella testa di Draghi

Tutto quello che c’è da sapere del governatore della banca d’Italia su capitalismo, conti pubblici, pensioni e riforme. E perché, se venisse nominato alla guida della BCE, il capitalismo europeo non sarebbe più lo stesso

Nemici, proprio nemici, ufficialmente non ne ha. Nessuno fra coloro che contano prende apertamente posizione contro il governatore della Banca d’Italia, o polemizza con toni accesi con lui. Però Mario Draghi, accanto a tantissimi estimatori, annovera anche un buon numero di persone che, pur sorridendogli quando lo incontrano, lo guardano un po’ di storto, lo ritengono – come avrebbe detto Enrico Cuccia – l’esemplare di uno zoo molto diverso dal loro e non sarebbero dispiaciute se questo distinto signore, sicuramente colto, preparato, dalla vasta e solida credibilità internazionale, prendesse la via di Francoforte per guidare la Banca centrale europea al posto del francese Jean-Claude Trichet. E lasciasse così libera l’ambitissima poltrona che occupa a Roma prima della fine del mandato (2012). Ma perché Mario Draghi divide il pubblico di chi segue le vicende del potere politico-finanziario? Che cosa piace e che cosa no del suo pensiero e nel suo modo di guidare la Banca d’Italia e il Financial stability board, il principale cenacolo internazionale dove si discutono gli assetti futuri della finanza? E come cambierebbe, se lui andasse davvero a Francoforte, la politica monetaria europea? Vediamo. Il governatore ha studiato al Mit (Massachusetts institute of technology) di Boston, è stato allievo del premio Nobel Franco Modigliani, ha collaborato con Bob Solow e Paul Samuelson (altri due premi Nobel). Questa scuola, questa cultura, questa metodologia di analisi e di studio anglosassoni sono entrate a far parte del suo Dna. L’idea che il mercato, naturalmente a certe condizioni e all’interno di norme ben precise, sia il regolatore ottimale è sua da sempre. Molti apprezzano questa impostazione, ritenendola una ricetta da applicare anche all’Italia. Altri invece (e sono molti anche in questo caso) gliela rimproverano, soprattutto adesso che il modello economico-finanziario anglosassone è in affanno: con la crisi seguita al caso dei subprime è apparso evidente che qualcosa in quel sistema non funziona, che ha bisogno di riforme profonde, di una nuova regolamentazione. Per questo (e a parte gli interessi di grandi Paesi che spingono per propri candidati) c’è chi guarda con diffidenza alla possibilità che Draghi approdi ai vertici dell’Eurotower di Francoforte, sede della Bce. L’Europa guidata dall’asse franco-tedesco vorrebbe che il signore della moneta unica fosse meno atlantico. Magari come l’attuale governatore della Bundesbank Axel Weber, il più accreditato rivale di Draghi a quella carica.

Il privatizzatore

Alcuni ricordano anche che la sua vocazione liberista, la sua apertura totale al mercato, non sempre è stata felicissima. Il riferimento è alla stagione delle privatizzazioni italiane. Draghi le guidò come direttore generale del Tesoro, fu lui a organizzare il famoso vertice sul panfilo reale inglese Britannia nel quale i grandi banchieri d’affari internazionali incontrarono i manager delle imprese pubbliche destinate ad andare sul mercato. Vista con l’occhio della storia non fu un’operazione brillantissima. In un capitalismo senza capitali, come storicamente è quello italiano, le grandi imprese sono finite spesso in mai straniere (o stanno per esserlo, come nel caso della Telecom). Il Britannia è stata soprattutto un’occasione di straordinari affari, generatori di succulente commissioni, per i merchant banker. Una categoria della quale per lungo tempo ha fatto parte lo stesso Draghi, essendo stato ai vertici di Goldman Sachs, la più famosa banca americana accusata di aver reso più accettabile il bilancio pubblico greco, con abili maquillage, in vista dell’entrata nell’euro.

La sirena politica

Draghi occupa in via Nazionale la più importante e prestigiosa poltrona tecnica che esista nel Paese. Ma spesso il suo nome è entrato in quei totonomine che tanto piacciono ai giornali quando si lasciano andare alla fantapolitica, attività forse professionalmente criticabile, ma stimolata dall’andazzo che si raccoglie nelle stanze del potere. Più volte si è parlato di lui come di un possibile candidato a Palazzo Chigi qualora il centro destra si sfaldasse e fosse necessario ricorrere a una sorta di governo di salute nazionale per permettere una transizione soft. Non sarebbe una novità per l’Italia. Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore, e Lamberto Dini, ex direttore generale dell’istituto centrale, sono diventati politici di primissimo piano. Lo stesso predecessore di Draghi, Antonio Fazio, è stato indicato dai rumors come possibile leader di una formazione politica sulla quale i media hanno a lungo arzigogolato; un progetto che poi si è rivelato inconsistente-inesistente e si è sciolto come neve al sole per i noti eventi giudiziari (l’appoggio dato a Giampiero Fiorani e ai furbetti del quartierino nei tentativi di scalate bancarie).Ora lo stesso ritornello si ripropone per Draghi. Hanno qualche fondamento queste voci? Molto probabilmente no. Draghi tiene al suo incarico attuale e caso mai è attratto dall’idea di crescere a livello internazionale, con la Bce oppure facendo aumentare l’importanza strategica dello Stability board. Certo però che alcune sue uscite sulle vicende italiane hanno seminato qualche dubbio sul reale distacco del governatore verso la politica nazionale. Per esempio sono stati giudicati molto politici alcuni suoi interventi come quello al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini nell’agosto scorso; o quello in cui ha parlato apertamente della necessità di alzare l’età pensionabile provocando una stizzita reazione da parte del governo; o ancora quello in cui ha espresso molte perplessità sullo scudo fiscale. In queste e altre circostanze è sembrato che Draghi avesse un interesse molto vivo per il dibattito politico e che sarebbe eventualmente disposto a entravi anche personalmente: se la situazione del Paese lo rendesse necessario potrebbe, per spirito di servizio, fare la sua parte.

Le nuove regole

Il governatore, nato e cresciuto nella cultura del libero mercato, della supremazia del capitalismo, è stato molto colpito dall’attuale crisi e dalle conseguenze che sta producendo. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, a Napoli il 13 febbraio 2010, ha detto: «La crisi ha mostrato l’effetto devastante dei fallimenti di grandi istituzioni finanziarie. I governi e le banche centrali sono intervenuti per mitigarne l’impatto; così facendo hanno, talvolta, sostenuto e protetto le stesse istituzioni all’origine della crisi. L’azzardo morale si è aggravato con la crisi: le istituzioni finanziarie si sentono protette dal rischio di fallimento e dal timore stesso che esso incute, assumono nuovi rischi (…) e realizzano ingenti profitti. Ridurre l’azzardo morale è obiettivo condiviso». Quindi, secondo Draghi, il capitalismo deve darsi nuove regole, varare controlli più incisivi se vuole evitare che le crisi si cronicizzino, si ripresentino a ondate ogni volta più devastanti. Alcune proposte le ha anche avanzate ripetutamente nel corso dei suoi interventi pubblici: la riduzione degli stipendi dei manager e la revisione di tutti quei meccanismi come le stock options che spingono i manager stessi a enfatizzare i risultati a breve delle imprese che gestiscono; il cambiamento dei criteri di capitalizzazione delle società; una nuova disciplina per regolare i cosiddetti derivati, cioè quei prodotti creati dalla fantasia degli ingegneri finanziari che tanta parte hanno avuto nel provocare la crisi nell’amplificarne gli effetti. Nuove regole, secondo Draghi, servono ora per stabilire le varie tappe dell’exit strategy che tutti i governi dovrebbero adottare. «Il Fondo monetario internazionale», ha detto sempre lo scorso febbraio a Napoli, «valuta che dal 2007 i deficit pubblici si siano quintuplicati in rapporto al Pil nei Paesi avanzati». Bisognerà porvi rimedio, ma con molta attenzione: «L’uscita dall’attuale configurazione di misure non convenzionali di politica monetaria non dovrà essere prematura, per non ostacolare la ripresa; non dovrà neanche essere tardiva, per non mettere a rischio la stabilità dei prezzi e non alimentare distorsioni dei mercati e bolle speculative che porrebbero i presupposti di nuove crisi».

Credits Images:

Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea e, alle sue spalle, Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e candidato alla sua successione. La guida del Financial stability board, autorità per la regolamentazione dei mercati finanziari, ha portato al nostro banchiere centrale illustri fan internazionali tra i quali il Financial Times