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La leadership secondo Julio Velasco

L’importanza della comunicazione. La differenza tra guidare e comandare, e quella tra gruppi di lavoro misti, di sole donne o di soli uomini. La retorica sul gioco di squadra. La peste del paraculismo. Uno dei coach più premiati al mondo racconta a Business People il suo straordinario modo di intendere la leadership

Lo scorso maggio ha annunciato il suo addio al ruolo di allenatore di pallavolo, la notizia ha ragionevolmente fatto scalpore, visto che Julio Velasco – argentino di nascita, italiano di adozione – è tra i più premiati di sempre al mondo (e infatti pochi giorni dopo è stata resa nota la sua nomina a direttore tecnico dell’attività giovanile maschile). Non stupisce, quindi, che ben mille tra manager e imprenditori siano accorsi ad ascoltare, prendere appunti e divertirsi al workshop dedicato alla leadership, che lo ha visto di recente protagonista a Milano in occasione di un evento organizzato da Performance Strategies. Ad ascoltarlo nel suo lungo intervento si comprendono le ragioni di tanti record: Velasco è soprattutto ed essenzialmente un grande comunicatore, un attento osservatore dell’animo umano, un fine cultore del pensiero laterale. Non a caso è un quasi laureato in filosofia datosi allo sport, prima per necessità, poi per capacità. Non si atteggia a guru o saggio, non scodella dall’alto frasi fatte, le sue sono indicazioni pratiche, ricche di spunti ironici, aneddoti ed esperienze dirette che sanno – come direbbe qualcuno parafrasando Winston Churchill – di «lacrime, sudore e sangue».

Velasco, cosa accomuna un allenatore a un manager?La globalizzazione nello sport come nel business ha reso feroce la competizione: a una squadra come a un’azienda non basta più fare le cose bene o benissimo, perché è sufficiente che qualcun altro le faccia poco meglio per entrare in crisi. E questo affannarsi crea molta ansia. Abbiamo quindi delle cose in comune e altre, soprattutto due molto importanti, no. La prima è che a ogni inizio di campionato noi partiamo tutti da zero punti: se la stagione non è andata bene, in estate abbiamo modo di rifletterci e di aggiustare il tiro. Sono pause che i manager non hanno, per loro il campionato è sempre aperto, e per rimanere in partita i punti persi devono essere recuperati: è un po’ più complicato. Dopo tutto anche nella vita è così. Le mie figlie potrebbero testimoniare alla grande: quando capisci com’è una bambina di un anno, lei ne ha già due, e quando capisci com’è a due lei ne ha già tre, e così via, si tratta di un’eterna rincorsa in cui non ci sente quasi mai all’altezza della situazione. E di solito i figli sono sempre lì pronti a presentarti il conto…

La seconda differenza?Noi allenatori…

L’intervista continua sul numero di Business People luglio

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