Dieta mediterranea: elogio della semplicità

Si parla tanto di dieta mediterranea e della sua tutela Unesco ma è davvero il migliore regime alimentare possibile? E perché ora si vuole candidare anche la cucina italiana?

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La dieta mediterranea è diventata il simbolo dell’alimentazione sana per eccellenza, dell’esempio da seguire per chi vuole vivere a lungo e in salute. E a dimostrarlo per primo non è stato un italiano o un francese, ma uno statunitense, il nutrizionista Ancel Keys, che, a partire dagli anni 50 iniziò a studiare le abitudini della popolazione di alcune zone del sud Italia per capire eventuali correlazioni con la bassa incidenza di malattie cardiovascolari e croniche. Fece lo stesso a Creta e arrivò a stabilire che, parafrasando il titolo del suo famosissimo libro, “mangiare bene” ovvero seguire un’alimentazione come quella delle popolazioni del Mediterraneo a base di carboidrati, frutta e verdura di stagione, legumi, pesce e olio d’oliva, facesse “stare bene”. Una rivoluzione. E fu solo l’inizio perché nel 2010 l’Unesco ha approvato l’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del patrimonio culturale immateriale, accettando la candidatura di Italia, Spagna, Grecia e Marocco, poi estesa anche a Cipro, Croazia e Portogallo.

Ma è davvero così? La dieta mediterranea è la migliore in assoluto? Ed è l’unico patrimonio culinario tutelato dall’Unesco? Facciamo un po’ di chiarezza, anche perché a marzo è stata candidata a Patrimonio Unesco pure la Cucina Italiana.

Che cos’è la dieta mediterranea

Quello che hanno capito Ancel Keys e i primi studiosi è che la dieta mediterranea non è solo una lista di alimenti salutari ma un vero e proprio stile di vita, un modo di rapportarsi con il cibo, il territorio, le stagioni e le persone. Keys ha scelto quindi il nome “dieta” che dal greco diaìta significa proprio “modo di vivere”. L’Unesco ha perciò deciso di tutelare non solo la scelta di certi ingredienti, ma un patrimonio culturale più ampio, fatto di tradizioni, riti e abilità tramandate di generazione in generazione, di modi di coltivare e pescare, di creatività, di biodiversità e condivisione. Un sistema sempre attuale non solo nel prevenire determinate malattie, ma anche nel rispondere alle sfide dello sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030.

Le altre cucine tradizionali nel resto del mondo

L’Unesco riconosce l’importanza solo della dieta mediterranea? In realtà no. Forse non tutti sanno che nella lista del patrimonio culturale immateriale c’è anche la cucina tradizionale messicana e quella giapponese (washoku), che, tra l’altro, condividono diversi elementi con la dieta mediterranea, come la stagionalità, l’abilità manuale e il cibo come legame sociale. C’è la cultura del caffè turco, il pasto alla francese, l’arte di preparare il kimchi coreano o il tè cinese, solo per fare qualche esempio.

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Qual è allora il significato della tutela Unesco e perché l’Italia ha deciso ora di candidare anche la propria cucina? Ne abbiamo parlato con Laila Tentoni, presidente della Fondazione Casa Artusi, tra i promotori della candidatura La cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale.

Perché è stato tanto importante il riconoscimento Unesco per la dieta mediterranea? Che cosa ha cambiato?
È stato il punto di arrivo di un lavoro straordinario, in questo caso non fatto solo dall’Italia, ma da diversi Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La dieta mediterranea è uno stile di vita, ci ha insegnato come volerci bene, come stare bene e ha cambiato moltissimo le abitudini alimentari sia dei Paesi che avevano proposto la candidatura sia del resto del mondo. Prima di essere presidente di Casa Artusi, per esempio, ho diretto l’ufficio scuola e cultura del comune di Forlimpopoli (Fc) per 40 anni e mi sono occupata delle mense scolastiche. Nel 2010, proprio in virtù del riconoscimento, abbiamo cambiato l’alimentazione dei nostri bambini, limitando la carne a due volte alla settimana e aumentando i carboidrati, le verdure e il pesce.

Sono patrimonio Unesco, pure il kimchi, la cucina messicana… la dieta mediterranea è davvero la migliore o ha avuto solo più risonanza?
La presenza del pesce e delle verdure sono in realtà buone pratiche che sono condivise anche in altre culture. Ma attenzione, l’Unesco non tutela e non certifica la qualità di una cucina, che sia quella messicana o il pasto francese. Quello che si vuole riconoscere come patrimonio immateriale dell’umanità non è quindi una ricetta o un regime alimentare, ma un valore culturale, un insieme di pratiche sociali, di abitudini, di tradizioni uniche.

Per questo si è deciso di candidare anche la cucina italiana all’Unesco? Che cosa offre in più o di diverso rispetto alla dieta mediterranea?
La proposta è nata da Maddalena Fossati, direttrice della rivista La Cucina Italiana che nel luglio 2020 ha lanciato questa sfida: meritiamo il riconoscimento della cucina italiana come patrimonio Unesco. È stato così istituito un comitato scientifico presieduto da Massimo Montanari, massimo esperto di cultura del cibo nonché presidente del comitato scientifico di Casa Artusi. In questi tre anni abbiamo cercato di redigere un dossier che rappresentasse la cucina italiana e questa è stata la cosa più difficile perché la cucina italiana non è uno spazio omologante. Esiste unicamente nelle tantissime varianti delle cucine locali ed è proprio questa la nostra unicità. Noi quindi chiediamo il riconoscimento del valore culturale della diversità, un modo di intendere la cucina presente già nei manuali rinascimentali e narrato nell’Ottocento del gastronomo Pellegrino Artusi. Il suo libro è un’opera collettiva, uno spazio di condivisione in cui troviamo le ricette delle varie regioni, ma anche le diverse varianti. E il manifesto di questa diversità è il minestrone. Il discorso dell’Artusi infatti è: “Io lo faccio a modo mio, ma voi fatelo a gusto vostro e soprattutto con gli ingredienti che si trovano nel vostro territorio”. Pensate ancora oggi alle festività: sono un grande momento di convivio, un’occasione per stare insieme a tavola, ma anche per litigare su quale sia la ricetta della pasta migliore.

Accettando la diversità e le varie interpretazioni non si corre il rischio di travisare? Di accettare anche il parmesan, per dire?
Possiamo dire che ci sono molti italiani all’estero che hanno cercato di ricostruire i sapori della memoria, ma i prodotti italiani a marchio hanno un disciplinare che è garanzia di sicurezza, di qualità e di un processo di lavorazione.

E quando non si può arrivare a un disciplinare si cerca la tutela Unesco come è successo per l’arte del pizzaiolo napoletano…
L’importanza è essere chiari, si deve capire immediatamente di che cosa si sta parlando. Ecco, la pizza è un alimento che è arrivato oltre Oceano ma diamo all’arte napoletana il merito di averla inventata e di averne fatto un cibo che nutre l’anima di tutto il mondo. Poi ho mangiato una buonissima pizza a Chicago, ma è un’altra cosa e del resto la cucina è una contaminazione continua perché le merci, come le persone e le ricette, si muovono e si scambiano. È utile a questo proposito l’esempio del professor Massimo Montanari: gli spaghetti al pomodoro sono l’icona della cucina italiana eppure la pasta secca viene dal Medioriente arabo e il pomodoro dall’America. Da questo incontro fortunatissimo è nato il piatto tipico italiano. È quindi la nostra capacità di unire che rappresenta più di ogni altra cosa l’essere italiano.

La procedura di valutazione si concluderà entro dicembre 2025. Che cosa possiamo fare nel frattempo per (ri)scoprire questa diversità?
Io consiglio di leggere di La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene dell’Artusi perché è un romanzo gastronomico piacevole da leggere e perché ci insegna tante cose in un modo che a me oggi, in tempi così difficili, manca tanto ovvero la leggerezza e l’ironia.


Articolo pubblicato sul numero di giugno 2023 di Voilà – Acquistalo in edicola o scarica la tua copia da App Store o Google Play

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