Gli imprenditori e la medietà

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In queste settimane di iperbulimia berlusconiana, in cui commentatori e media si sono cimentati nei distinguo tra la figura politica e quella imprenditoriale del fondatore di Mediaset, mi è sorta l’amena curiosità di approfondire il senso del termine. Cosa significa la parola imprenditore oggi? Che senso assume questa figura nell’immaginario collettivo e, in particolare, all’interno dei consessi universitari dove dovrebbero nascere, formarsi e crescere le nuove leve per poi poter spiccare il volo a beneficio della nostra economia?

Le definizioni che vengono fuori, viaggiando sui siti di vari atenei, descrivono il ruolo dell’imprenditore come quello di un professionista che crea un’azienda per generare profitto, la cui principale attività consiste nell’organizzare e coordinare risorse umane e materiali per realizzare un prodotto o un servizio. E per farlo deve avvalersi di tutta una serie di strumenti di analisi e pianificazioni, proponendosi come portatore di una chiara idea di business, in virtù della quale si pone dei precisi obiettivi da raggiungere.

Ma chi sarà mai questo Superman? Certo, si parla anche di soft skill e di passione nonché di visione, ma nella sostanza si indicano più condizioni ideali che reali. Vien da chiedersi se non sia anche per questo che nell’ultimo decennio non siano salite agli onori della ribalta figure di giovani imprenditori in grado di gareggiare in intraprendenza e visione con lo scomparso Silvio Berlusconi, oppure con un Leonardo Del Vecchio o un Giorgio Armani.

Certo, si vedono novelli imprenditori – o aspiranti tali – che parlano a menadito più lingue, progettano start up, viaggiano spediti sul digitale, ma a cui manca quel non so ché per essere speciali e, di conseguenza, rendere tali anche le aziende a cui danno vita. Non saprei come definirla: ai miei tempi si parlava di marcia in più, di scintilla, di fame… Ovviamente, adesso esistono fior di business school in grado di darle un nome più in sintonia con le epoche che stiamo vivendo. Anche se credo che in qualsiasi settore – nell’arte come nella produzione e nell’agire umano – i fondamentali rimangano sostanzialmente invariati nei secoli.

Sono sempre più convinto che per un imprenditore una formazione adeguata sia da considerare non più un plus bensì una conditio sine qua non, e che il resto lo determino il carattere, la personalità, la passione, l’educazione, la storia della persona che sceglie di fare questa professione. In questo sono d’accordo con Steve Jobs quando sosteneva che «circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza».

Il fatto è che troppo spesso temo si confonda il termine imprenditore con quello di leader: ci sono degli ottimi imprenditori che non sono dei leader, e di rimando non lo sono neanche le rispettive – seppur ottime – aziende. Al nostro Paese, dove proliferano le pmi, non mancano i primi, deficitiamo dei secondi. In economia come in politica. E se le famiglie, la scuola, la società nel suo insieme non faranno in modo che i talenti possano esprimersi al loro meglio, continueremo a perseverare lungo la linea della medietà.


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