Settimana corta: una rivoluzione sostenibile?

Lavorare meno, guadagnare uguale… I sindacati chiedono l’orario ridotto e nel settore privato abbondano le sperimentazioni della settimana corta. Anche in ottica sostenibilità. Ma è uno scambio fattibile? E cosa c’entra l’A.I.?

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La rivoluzione nei comportamenti e nelle aspettative di lavoro, tra cui la sempre più acclamata settimana corta, l’ha innescata la pandemia Covid. Ha ribaltato priorità e bisogni, ha determinato la rottura dei tradizionali spazi di lavoro. Ha disintermediato gli uffici, ha interrotto la dinamica in presenza tra colleghi e capi con le videoconferenze in Zoom, Teams e Skype. D’altronde, ha riconosciuto un’indagine di Microsoft, dal 2020 in poi il numero di organizzazioni italiane che hanno adottato modelli flessibili di lavoro è aumentato in modo esponenziale, passando dal 15% del 2019 a quasi l’80% di ora.

Nei questionari fatti circolare dalle organizzazioni sindacali i lavoratori di diversi comparti produttivi difendono a spada tratta questo “diritto da remoto” almeno un giorno alla settimana. In questa “nuova normalità”, ormai imperante da tre anni, si sono registrati benefici sia in termini di produttività sia di efficienza, col 71% dei manager convinto che le modalità ibride abbiano comportato risparmi in termini di costi.

Lavorare meno, guadagnare uguale

Il passaggio successivo non poteva che riguardare la riduzione delle ore di lavoro, che la tecnologia consente ormai a parità di produttività. La questione ruota attorno alla tenuta dei livelli salariali, messi a dura prova da questo pesante rincaro dei prezzi. Si può lavorare per un numero di ore inferiore a parità di stipendio? Qui le opinioni divergono, però la contrattazione collettiva, il confronto dialettico, spesso aspro, tra associazioni datoriali e sindacali, si sta interrogando da tempo sul come bilanciare tempo libero, costo della vita, stipendi e produttività.

L’idea della settimana lavorativa di quattro giorni si sta facendo strada. La Cgil l’ha inserita nella propria piattaforma congressuale, la Cisl propone di avviare sperimentazioni.

Gli orari di lavoro settimanali previsti dalla legge

Tra i primi ad avanzare la proposta della settimana corta sono stati i sindacati del legno arredo, Filca, Fillea, Feneal che hanno chiesto una riduzione dell’orario pari a circa 12 giorni all’anno. Poi sono arrivati i bancari che chiedono 10 ore al mese, quasi 16 giorni all’anno. Ora anche gli alimentaristi, che puntano a 24 giorni in meno all’anno.

L’attuale disciplina sull’orario di lavoro è prevista da una legge del 1997, poi parzialmente modificata da un decreto del 2003, che stabilisce a 40 ore settimanali la durata normale media di un contratto di lavoro a tempo pieno.

L’orario massimo è stabilito dai contratti collettivi nazionali delle specifiche categorie professionali, ma in ogni caso non può eccedere le 48 ore, come stabilito da una direttiva europea. Nel 2021 la media annuale italiana di ore effettivamente lavorate da un singolo lavoratore dipendente o autonomo è stata di 1.669 ore. Dato sopra la media dell’Unione europea, che si attesta sulle 1.556 ore.

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La media annuale italiana di ore effettivamente lavorate da un singolo lavoratore – dipendente o autonomo – in Italia è decisamente più alta della media Ue: nel 2021 è stata di 1.669 ore contro 1.556 (© iStockPhoto)

Da Intesa Sanpaolo a Fastweb: i primi test sulla settimana corta in Italia

Scrivono i ricercatori della Voce.info Andrea Garnero e Alessandro Tondini che anche nel privato sono già partiti dei test specifici. «La sperimentazione avviata da Intesa Sanpaolo in Italia è una forma ibrida tra i due modelli: si riducono le ore, ma di poco, da 37,5 ore settimanali su cinque giorni a 36, cioè nove per quattro giorni. Anche la proposta di Lavazza è ibrida, con una settimana di quattro giorni e mezzo, quindi di fatto tagliando ore ma non giorni, come nelle riforme passate».

In alcuni casi si mette in campo una riduzione dell’orario di lavoro pagata in parte dai lavoratori e in parte dall’azienda. La siderurgia è l’esempio classico. Ma anche il settore chimico in alcuni casi si presta a questa formula. In Tenaris e Arvedi, per esempio. Lo stipendio resta uguale, ma di fatto una parte del taglio delle ore è pagato dal dipendente che cede ore retribuite di permesso previste dal contratto, la restante parte delle ore sono tagliate dall’azienda con un costo secco per l’impresa.

Il contratto dei metalmeccanici prevede che dal 2026 i lavoratori con 18 anni di anzianità abbiano una settimana in più di ferie (da quattro si sale a cinque). Anche questo potrebbe favorire accordi sulla settimana corta di questo tipo. Qualche sperimentazione di questo modello esiste anche nel settore delle telecomunicazioni: il contratto delle telecomunicazioni delega al livello aziendale l’organizzazione dell’orario di lavoro.

In Fastweb si lavora quattro giorni e mezzo alla settimana e le ore mancanti sono compensate al 50% da permessi e al 50% dall’azienda. Anche in Abb è appena stato raggiunto un accordo che riduce l’orario di lavoro (da 42 ore a 37-39, a seconda dei turni). La riduzione oraria è per il 60% a carico dell’azienda e per il 40% a carico del lavoratore.

LE ULTIME SUL MONDO DEL LAVORO

Cos’è successo agli stipendi in Italia

Per capire che cosa sta avvenendo forse è utile citare un sondaggio che ha appena realizzato il blog La Nuvola del Lavoro del Corriere della Sera. Emerge una diapositiva molto sorprendente. Hanno risposto circa 3.700 tra lavoratori autonomi e dipendenti. La survey ha esplorato tre questioni principali: potere d’acquisto; organizzazione e orari di lavoro; conciliazione degli impegni privati con quelli professionali. Il 61% dei dipendenti vorrebbe lavorare di meno contro il 39% degli autonomi.

Gli autonomi lavorano di più ma sentono meno il bisogno di ridurre i compiti fuori casa, segno che dietro la tendenza al disimpegno verso le incombenze professionali non c’è solo un maggior bisogno di privato, ma anche una insoddisfazione rispetto al lavoro che si fa e alle prospettive che offre.

Ma la notizia è che per un orario ridotto un dipendente su due sarebbe disposto persino a guadagnare meno. Peccato che questo stia già avvenendo e non certo per legge. Nell’ultimo bollettino economico della Bce si evidenzia come l’Italia sia il Paese dell’euro che ha guadagnato più competitività internazionale dal 2019.

Questo guadagno è il frutto di un più forte contenimento dei salari e dei profitti rispetto a quasi tutte le altre economie. Come collettività nazionale abbiamo scelto una forte compressione del nostro potere d’acquisto pur di mantenere o generare posti di lavoro e pur di mantenere o generare posti di lavoro e pur di mantenere aperte le nostre aziende. Durante la fiammata dell’inflazione abbiamo accettato di diventare più poveri pur di restare economicamente attivi.

L’occupazione aumenta, ma 2,7 milioni di persone che lavorano in Italia sono «a rischio di povertà», registra l’ultimo rapporto di Bankitalia. Era prevedibile che le opposizioni si unissero nel chiedere il salario minimo per legge, perché il lavoro sia dignitosamente pagato. Stiamo diventando un Paese solido, resiliente e dai conti con l’estero sani, perché stiamo diventando più a basso costo rispetto alle altre economie avanzate. Non più efficiente, solo un po’ più povero.

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Il ruolo dell’Intelligenza Artificiale generativa

All’orizzonte poi si staglia un’altra rivoluzione che promette di terremotare il mondo del lavoro: l’intelligenza artificiale generativa costruita su algoritmi allenati su miliardi di miliardi di dati. Tra tecnofobi e tecno-ottimisti si cerca, dunque, una bussola per chi si trova spaesato e chi rischia di essere relegato ai margini. Il partito dei (neo) luddisti che profetizzano l’effetto nefasto dell’A.I. è sempre stato nutrito e ora alcune avvisaglie di disoccupazione tecnologica delle Big Tech Usa potrebbero amplificarne le ragioni.

Certo, è vero che siamo di fronte a «tecnologie esponenziali che moltiplicano i loro effetti» per dirla con le parole di Davide Casaleggio che indicò, qualche anno fa, come data spartiacque il 2054. L’anno in cui saremo liberi dalle incombenze lavorative o al massimo impiegati per l’1% del nostro tempo.

L’analisi poggia sulla necessità di una redistribuzione dei proventi dell’iper-produttività raggiunta dalle aziende, finora indirizzata solo alla remunerazione del capitale sotto forma di dividendi agli azionisti. Una moltiplicazione della ricchezza che non ha giovato «ai lavoratori che percepiscono salari, ormai fermi da anni», dice Maurizio Landini, alla guida della Cgil, che prende in prestito la tesi della tassazione sulla produttività aggiuntiva realizzata dai robot, rivendicata per primo da Bill Gates e con parecchi proseliti anche nella Silicon Valley.

Il reddito di cittadinanza altro non sarebbe, allora, che una prima forma di redistribuzione basata sull’assunto che solo un sussidio universalistico sia in grado di stimolare la domanda di consumi restituendo un circolo virtuoso all’economia. L’era dell’intelligenza artificiale applicata «potenzierà solo la capacità cognitiva degli esseri umani», dice invece Marco Bentivogli, grande esperto di lavoro con un passato in Fim Cisl. Se solo saremo in grado di cogliere (e di anticipare) il progresso lavorando sull’aggiornamento costante delle competenze.

«Non finirà la manifattura. È l’assenza di tecnologia che distrugge i posti di lavoro, non il suo contrario». Spariranno i profili a basso ingaggio cognitivo, riflette Bentivogli, «come le funzioni impiegatizie ad alto tasso di ripetitività».

La settimana corta per combattere l’emergenza climatica

L’altro versante di ragionamento riguarda l’emergenza climatica. Dato che una quota significativa di emissioni è dovuta ai trasporti, è necessario non solo favorire la diffusione dell’elettrico e l’uso del trasporto pubblico, ma anche ridurre gli spostamenti che si possono evitare.

Nell’ultima proposta di aggiornamento del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) che il governo ha appena inviato a Bruxelles, tra le soluzioni pensate per ridurre le emissioni si citano lo smart working e la settimana corta.

«Nell’ambito del settore dei trasporti occorrerà incentivare con maggiore forza misure tese a trasferire gli spostamenti dell’utenza dal trasporto privato a quello pubblico attraverso lo shift modale, ridurre la necessità di spostamento con politiche di favore per smart working e valutare la riduzione delle giornate lavorative a parità di ore lavorate», si legge nella proposta.


Questo articolo è tratto dal numero di Business People di settembre 2023, scarica il numero o abbonati qui

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