Lo smart working torna a diffondersi, ma non per tutti gli italiani

L’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano registra un leggero aumento dei lavoratori da remoto, ma solo in due categorie di aziende. Ecco quali

smart workingKerkez/iStockphoto

Dopo i picchi della pandemia e una graduale riduzione negli ultimi anni, lo smart working in Italia sta dando piccoli segnali di ripresa. Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, a oggi in Italia ci sono circa 3,585 milioni di lavoratori da remoto e il prossimo anno potrebbero diventare 3,65 milioni.

Due realtà diverse per lo smart working in Italia

La diffusione dello smart working, però, non è omogenea e sta creando notevoli differenze tra aziende e lavoratori dello stesso settore. In base ai dati appena diffusi dall’Osservatorio, infatti, nel 2023  i lavoratori da remoto sono cresciuti in particolare nelle grandi imprese, nel comparto sono oltre un lavoratore su due, pari a 1,88 milioni di persone; sono aumentati lievemente anche nelle pmi, con 570mila lavoratori, il 10% della platea potenziale. Sono invece ancora calati nelle microimprese (620 mila lavoratori, il 9% del totale) e nelle Pubbliche Amministrazioni (515 mila addetti, il 16%).

Quasi tutte le grandi imprese (96%) prevedono al loro interno iniziative di smart working, in larga parte con modelli strutturati, e con il 20% delle imprese impegnate a estendere l’applicazione anche a profili tecnici e operativi precedentemente esclusi.

Lo smart working è presente anche nel 56% delle pmi, dove viene spesso applicato con modelli informali spesso gestiti a livello di specifici team, e nel 61% degli enti pubblici, con iniziative strutturate presenti soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni. Decisamente più indietro su questo aspetto, invece, le microimprese in Italia.

Secondo Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, “restano numerose barriere a una sua applicazione matura”. Troppo spesso, infatti, questa modalità di lavoro viene considerata “semplice lavoro da remoto o strumento di welfare e tutela dei lavoratori. È quindi necessario identificare lo smart working per quello che è realmente: non un compromesso o un male necessario, nemmeno un diritto acquisto o un fine in sé, ma uno strumento di innovazione per ridisegnare la relazione tra lavoratori e organizzazione”.

I benefici per l’ambiente e le aziende

Lo smart working ha effetti importanti sull’ambiente: due giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480kg di CO2 all’anno a persona grazie alla diminuzione degli spostamenti e il minor uso degli uffici. Lo smart working, inoltre, ha effetti sul mercato immobiliare e sulle città: il 14% di chi lavora da remoto ha cambiato casa o ha deciso di farlo, scegliendo nella maggior parte dei casi zone periferiche o piccole città alla ricerca di un diverso stile di vita, con un effetto di rilancio per diverse aree del paese.

Un cambiamento che ha generato iniziative di marketing territoriale e nuovi servizi, come nuove infrastrutture di connettività o spazi coworking. D’altronde, il 44% di chi lavora da remoto l’ha già fatto – almeno occasionalmente – da luoghi diversi da casa propria, come spazi di coworking, altre sedi dell’azienda o altri luoghi della città.

Pro e contro dei ‘veri’ smart worker

Non sempre però il lavoro da remoto porta a modelli realmente smart. Sono solo che oltre a lavorare da remoto hanno flessibilità di orari e operano per obiettivi, a presentare livelli di benessere ed engagement più alti dei lavoratori tradizionali in presenza. Questi ultimi hanno livelli migliori rispetto a coloro che lavorano semplicemente da remoto, senza autonomia e responsabilità. I ‘veri’ smart worker, tuttavia, sono più frequentemente vittime di forme di tecnostress e overworking.

Il ruolo dei manager

I manager hanno un ruolo fondamentale nella diffusione dello smart working ed è forse a determinare la grande spaccatura tra pmi e microimprese riguardo alla flessibilità lavorativa. Dove è presente un manager formato o un capo realmente “smart” (che assegna obiettivi chiari, fornisce feedback frequenti e costruttivi, favorisce la crescita professionale e trasmette gli indirizzi strategici) i livelli di benessere e prestazioni sono migliori rispetto a quelli i cui capi non hanno queste caratteristiche.

“Occorre fare formazione e coaching per migliorare le competenze manageriali rendendo i responsabili capaci di assegnare in modo chiaro gli obiettivi, di supportare le persone nel perseguire quelli più sfidanti, fornire feedback frequenti e costruttivi, favorire la crescita professionale”, sottolinea Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working. “Uno stile di leadership ‘smart’ permette infatti di migliorare engagement, benessere e prestazioni delle persone”.

Il futuro dello smart working in Italia

Praticamente tutte le grandi imprese prevedono di mantenere lo smart working anche in futuro, solo il 6% si dichiara incerta a tale proposito. Nelle P.A. c’è invece maggior incertezza: il 20% che non sa come evolverà l’iniziativa, una titubanza che si avverte soprattutto nelle organizzazioni di minore dimensione. Seguono le pmi: il 19% non sa come o se la propria organizzazione prevedrà lo smart working. Complessivamente, si prevede per il 2024 una crescita del numero dei lavoratori coinvolti, che si stima arriveranno a 3,65 milioni.

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