«Essere claudicante, che grande virtù»

Lo spiega a banche e imprese - e in futuro vorrebbe insegnarlo anche ai dirigenti politici - Haim Baharier, noto studioso di ermeneutica biblica e qabbalistica

Binah, in ebraico “comprensione”, è la terza delle dieci Sephirot, emanazioni divine, con­nesse tra loro, che costituiscono il diagramma simbolico dell’Albero della Vita, sintesi dei principali insegnamenti della Qabbala. Binah è anche il nome con cui Haim Baha­rier, noto studioso di ermeneutica biblica e pensiero ebraico, ha chiamato il Centro a cui ha dato vita a Milano nel 1995.

Come si è accostato alla formazione manageriale? Vengo da una famiglia di imprenditori. Per circa una ventina di anni ho diretto l’impresa, cu­randone gli affari – dalla moda ai preziosi, fino alla cosmetica – in giro per il mondo. Poi l’ho la­sciata, la nuova generazione bussava insistentemente alla porta. E allora sono uscito e ho fonda­to questo centro. Da tanto tempo, in realtà, m’interessavo a meccanismi psicologici, di appren­dimento. E così, nel mio percorso, mi sono imbattuto in Reuven Feuerstein, forse oggi uno dei più grandi pedagogisti a livello internazionale. È straordinario ciò che riesce a far fare ai sogget­ti down.

Quello di Feuerstein, per soggetti disabili, è un metodo che “insegna a imparare”. Ci spie­ga meglio? Si sviluppa attraverso delle serie di esercizi, semplici, ma sistematici – griglie e schede realizzate ad hoc – che interessano la struttura dei processi mentali, e permettono di individuarne innan­zitutto i punti deboli. L’insegnante è il tramite della “mediazione”, un processo altamente preciso che por­ta il soggetto a perfezionare le sue funzioni cogniti­ve, con l’obiettivo di renderlo autonomo. Studiando Feuerstein per capire da dove avesse attinto il peda­gogista, ho compreso che circa l’80% proveniva dal­la tradizione biblica e qabbalistica, che già studiavo da decenni. E ho portato tale metodologia in azienda, rielaborandola parecchio. Con una quindicina di for­matori, per quasi sette anni, ho lavorato con le mag­giori multinazionali e imprese italiane.

Quali problemi ha riscontrato nei gruppi di lavoro? L’amministratore delegato magari mi diceva: «Trasfor­mi il branco di cretini in gente intelligente». Ma que­sta era una petizione di principio insincera. In realtà nessuno aveva interesse che le persone fossero troppo brillanti. I dirigenti volevano mantenere il control­lo, facendo leva sul “ti tengo a bada”. E spesso, in quel branco di cretini, rientravano pure loro.

Poi, però, si è stancato e ora opera da solo… Il “metodo Baharier” era diventato un gioco, una moda. Mi rendevo conto della vanità con cui veniva vissuto tutto questo, senza sufficiente consapevolez­za da parte dei manager. Allora ho cominciato a oc­cuparmi di comunicazione, di mediazione, lavorando con le banche autonomamente, affiancato nel Centro dal mio stretto collaboratore, Alberto Ungari. I miei percorsi prevedono incontri di gruppo con top mana­ger e, in parallelo, individual coaching con l’ammini­stratore delegato. Parto sempre da testi ebraici, che al­l’inizio sono “pretesto”, per sorprendere, stupire e in­curiosire, e diventano poi “metatesto”, per estrapola­re principi universali. Per esempio, nella Genesi si nar­ra il sogno della scala di Giacobbe, che in sé contie­ne tutti i fondamenti della comunicazione. Specie in contesti bancari, ci sono fortissimi conflitti d’interesse tra le persone, prevalentemente di natura gerarchica. Al di là di regole tecniche, quello che occorre portare è la dimensione etica. Da cui, peraltro, non può essere disgiunto nessun processo di apprendimento.

Ma come si fa a introdurre l’etica in ambito finan­ziario? Ammettendo le difficoltà: quanto non sono preparato, quanto sono claudicante… Della claudicanza ci parla ancora la Genesi. Quando il Creatore fece i due grandi luminari del cielo, chiese alla luna di “diminuire” per accogliere l’altro. Si può, cioè, retrocedere senza soffo­care per mancanza di spazio. Su questo si deve lavorare per una nuova economia, che ho chiamato Economia di Giustizia. E non bisogna avere paura di non brillare. Dire Je ne sais pas, non so, ammettere pubblicamente un errore, fa crescere a dismisura la stima delle perso­ne nei propri confronti. La responsabilità, il peso delle decisioni, è il primo epigono dell’etica. Ma questa parola è stata così abusata, ormai ce la servono anche nei ristoranti, insieme ai menu…. Ora preferisco “virtù”, nell’accezione di Jean Jacques Rousseau: «Per vivere in essa dobbiamo sempre combattere con noi stessi».

Quali terreni vorrebbe ancora esplorare? Banche e imprese rimangono i terreni più interessanti e più fertili per me. Tuttavia mi piacerebbe anche accompagnare dirigenti politici, per esempio lavorare coi parlamentari sulla comunicazione e sull’etica. Ne parlai anni fa in un mio intervento al Senato. Grandi applausi, ma poi nessun seguito. Apprezzo molto le competenze delle persone che oggi governano l’Europa, e l’Italia più che mai. Ma rilevo una carenza. Li sento parlare, i ministri Monti, Passera, Fornero… Manca loro il linguaggio della motivazione.Spiegano il “come” poter uscire dalla crisi, attraverso tagli, rinunce, ma non ci dicono nulla sul “perché” dovremmo farlo. Bisogna suscitare l’interlocutore, toccare corde interne, profonde. Un politico potrebbe obiettare: “Non è il mio mestiere”. E invece sì, replico io, è anche questo.

Che definizione darebbe di leader?Nel mio Qabbalessico cito il Talmud babilonese, Trattato Yiuma: «La guida della tua comunità la sceglierai tra quelli che trascinano un vermicaio sulla schiena». Un’ode ante tempo alle virtù del ricatto? Il Talmud conosce un solo ricatto: costringerci a pensare. La sua provocazione premia chi crede nella possibilità di modificarsi e ne intraprende il percorso. Le cicatrici sono la facoltà umana di rigenerarsi.

Il soggetto in copertina del Qabbalessico è un “pescatore di parole”, come lei stesso si è definito…Vede, laddove la parola si fa strada, c’è speranza. Oggi la Qabbala è svilita, data in pasto a star e cantanti. Per favore, toglietemi di mezzo i maestri di Madonna! Sa chi è il vero qabbalista? È colui che negherà di esserlo, anche sotto tortura. Credo che la Qabbala non sia la panacea di tutti i mali, ma una trasmissione di sapere, un aiuto per gli uomini a inserirsi nella storia e a relazionarsi. Significa mettere piccole “scintille” alla portata di chi ha motivazione e determinazione. Da questo punto di vista, allora sì, è magica.

ARTICOLO PRINCIPALE – Negli affari ci vuole anche spirito

SCINTILLE DI CONOSCENZA«Era importante per me mostrare che si poteva usare una scrittura accessibile trattando argomenti pesanti. Che vivere è anche un’interpretazione dell’esistere, non solo un problema culturale». Così Baharier commenta il suo ultimo libro Qabbalessico (ed. La Giuntina).

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