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Lavoro

Ecco perché dovresti proprio assumere un diversity manager. Anche in Italia

L’inclusione fa bene alle aziende, ai conti e all’innovazione: un libro racconta le esperienze – tutte italiane – dei pionieri del Belpaese

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Ehi voi, imprenditori e Ceo, sapete che dovreste assumere un diversity manager? Perché l’inclusione aiuta le aziende, fa bene ai conti e favorisce l’innovazione. Anche in Italia, come racconta il libro della formatrice Valentina Dolciotti “Diversità e inclusione. Dieci dialoghi con diversity manager”, edito Guerini Next (166 pagine, 18 euro). Sono dieci storie vere di chi ha intrapreso questa strada ancora prima che nascesse la definizione di “diversity manager”. Manager per il People caring, per esempio, fu l’incarico assunto nel 2009 da Fabio Galluccio in Telecom: oggi guida il Team diversity, otto persone ma zeo budget.

Ecco perché dovresti assumere un diversity manager

Attraverso le storie di questi tre uomini e sette donne provenienti dagli ambienti più diversi (Abb, Axa, Costa Crociere, Enel, Ferrovie dello Stato, General Electric, Ibm, Philips, Telecom, UniCredit), l’autrice racconta l’emersione naturale di questa figura ancora indefinibile. «Nessuna delle aziende a cui mi sono rivolta ha creato questa figura dal nulla: si tratta sempre di una persona che già ricopre un ruolo alla quale è affidato anche questo incarico», racconta Valentina Dolciotti a Repubblica. Di solito si prende un membro delle risorse umane o della Csr, senza badare alla formazione: dalla filosofia all’economia.

A essere chiaro, però, è l’obiettivo di questo ruolo: l’inclusione. «In generale, un diversity manager tutela le diversità – di abilità, di orientamento sessuale, di genere, di religione, di etnia – prima ancora di sapere se sono presenti nell’azienda. Poi, si occupa della loro valorizzazione, sia attraverso progetti pratici, sia con la promozione di campagne di sensibilizzazione», aggiunge la studiosa che sottolinea come in Italia la diversità più “riconosciuta” sia quella legata alla disabilità.

Se le grandi aziende sono già attente a questi temi, le medie imprese oppongono ancora resistenza. Per un fattore culturale più che economico: «Per cominciare a occuparsi di questi temi serve la volontà politica da parte della proprietà. Spesso le pmi sono guidate da uomini e/o sono a conduzione familiare. Per loro, aprirsi a queste tematiche significa un doppio salto culturale», conclude l’autrice. Ma «L’inclusione permea molti ambiti, tutti si possono accorgere di come sia fondamentale. Nel mondo del lavoro solo una cosa deve contare: le competenze».