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Ritorno dell’energia nucleare in Italia? Sì, no, forse…

In un momento in cui la sostenibilità è diventata un imperativo, anche l’Italia sembra voler tornare sui propri passi e riaprire le porte all’energia atomica. Grazie alle nuove tecnologie sarebbe – almeno secondo alcuni – una valida alternativa alle fonti fossili, ma non mancano le criticità…

Ritorno dell'energia nucleare in Italia

Questa transizione non trova pace. O meglio, sta sperimentando l’avverarsi delle profezie più negative diffuse all’indomani degli accordi di Parigi nel 2015, e cioè che raggiungere un accordo quadro è relativamente semplice, stabilire delle date certe molto ma molto meno. L’ultimo G20 ne è stato sintomo evidente. Se fino al giorno precedente l’Europa dura e pura improntava la sua politica energetica su due date certe, 2030 per la riduzione delle emissioni del 55% e 2050 per il raggiungimento della neutralità climatica, la conclusione dei lavori riporta termini ancora una volta vaghi e tante profferte di buona volontà, che poi dovranno superare la prova dei fatti.

La conferenza di Glasgow non ha cambiato granché, se non nuovi e ambiziosi impegni tutti rigorosamente non vincolanti. In particolare, si esita ora che le economie vivono la ripresa e di energia c’è bisogno. Ne serve tanta, e serve a tutti. Non è un caso, quindi se nel dibattito internazionale si senta sempre più parlare di energia nucleare. È presente nel pacchetto energetico della maggior parte dei Paesi membri, l’Italia è l’unico ad avere espresso una posizione netta al riguardo con il referendum del 1987 dopo la tragedia di Chernobyl. Potrebbe rappresentare una valida alternativa alle fonti fossili nel periodo della transizione alle energie verdi? Può essere considerata essa stessa energia pulita e, quindi, inserita nella lista delle fonti “verdi” promosse dall’Unione Europea? Sono i temi caldi su cui è sempre più urgente dare una risposta, ma anche quelli su cui è molto sensibile l’opinione pubblica, in grado di orientare decisioni che sono anche di tipo politico, non semplicemente economico.

Ma noi siamo rimasti al nucleare del 1987, mentre la tecnologia – su cui l’Italia è all’avanguardia a livello globale – è andata avanti. Quello su cui si discute oggi è il cosiddetto nucleare di terza generazione avanzata. Cosa cambia rispetto al passato, tanto da poter riaprire porte chiuse da trent’anni e più? Ne abbiamo parlato con l’ingegner Alessandro Dodaro, responsabile della Divisione tecnologie, impianti e materiali per la fissione nucleare di Enea. «Il nuovo nucleare, o meglio il nucleare di terza avanzata e di quarta generazione» ci ha spiegato, «è improntato ad aumentare la sicurezza, grazie a reattori che, quando si creano le condizioni per un incidente, non richiedono più il controllo diretto dell’uomo per fermarsi, alla riduzione delle famigerate scorie e soprattutto al fatto che a differenza del passato, non viene prodotto il materiale utilizzato per costruire bombe, secondo il principio della non proliferazione.

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In Francia e in Finlandia si stanno realizzando reattori di taglia molto grande (1600 MW), mentre in molti Paesi si punta su reattori più piccoli, da 4-500 MW, con buone probabilità di successo perché intrinsecamente sicuri. Usano combustibili e hanno dimensioni come quelli appena descritti, ma sono progettati per non essere autosufficienti. Questo nuovo reattore di tipo ADS, Accelerator Driven System, per raggiungere la soglia critica ha bisogno di un’aggiunta di particelle da un acceleratore esterno. In caso di incidente, l’acceleratore si spegne e di conseguenza il reattore smette di funzionare». Si tratta di tecnologie nuove ma non nuovissime, che potrebbero essere utili in vista della decarbonizzazione prevista per i prossimi decenni. «I reattori di piccola taglia, supportati dall’acceleratore hanno già una tecnologia abbastanza matura, probabilmente nel giro di dieci anni avremo prototipi funzionanti che immetteranno energia elettrica in rete. Il processo di fissione è noto, non abbiamo grandi dubbi sui tempi, già questi reattori ADS potrebbero effettivamente dare un contributo alla decarbonizzazione».

Sì, ma quanto ci costerebbe? Il problema della redditività a lungo termine delle nuove centrali atomiche è tra i principali motivi di chi non le ritiene un investimento utile in questo momento storico. Secondo l’ing. Dodaro, «considerando il ciclo completo del reattore, dalla produzione del combustibile fino allo stoccaggio e smaltimento dei rifiuti radioattivi, il nucleare resta la fonte di energia a costo più basso dopo il carbone, senza l’impatto di quest’ultimo sull’ambiente. Le altre tecnologie rinnovabili hanno costi elevati, quando si parla di solare ed eolico. Chi dice che in Italia il nucleare è costato troppo ha ragione, perché da noi è stato interrotto, le centrali sono state messe in decommissioning molto prima di arrivare alla loro fine vita, quindi il costo dello smantellamento è tutto a carico di noi cittadini. Un produttore di energia nucleare guadagna ipotizzando 30-40 anni di funzionamento del reattore. E si tratta comunque di un limite molto conservativo, nessun reattore per quanto mi risulti, è mai stato spento dopo i 40 anni. Con gli opportuni accorgimenti è possibile allungare la vita del reattore di altri 20 anni, che sono solo profitto per il produttore. Se il produttore è lo Stato è una buona cosa». Eppure, le rinnovabili quest’anno per la prima volta hanno superato le fonti energetiche tradizionali in volumi di produzione (fonte GSE). I costi si stanno abbassando progressivamente, forse i dubbi su una tecnologia che non porta profitto prima dei 30 anni non sono poi così peregrini. «Fino a qualche anno fa», puntualizza Dodaro, «se non ci fossero stati gli incentivi statali sarebbe stato antieconomico installare i pannelli fotovoltaici, ed è un sistema che funziona solo finché sono la minoranza degli utenti a produrre energia dal sole. Infatti, i costi maggiori che il distributore sostiene per acquistare l’energia prodotta dai privati e metterla in rete vengono divisi tra tutti gli utenti, con i numeri attuali parliamo di uno zerovirgola impercettibile, ma se dovessero aumentare cambierebbe tutto. Le rinnovabili, inoltre, non possono garantire il 100% del fabbisogno per le loro caratteristiche intrinseche. Io sono dell’avviso che bisogna spingere al massimo e arrivare al 65-70% da rinnovabili pure. Ma il restante 20-30% di energia necessario, comunque, l’Italia dovrà acquistarla dall’estero. La scommessa del futuro sono i reattori a fusione, quando ci arriveremo lo scenario cambierà completamente».

La tecnologia a fusione sarà dunque l’uovo di Colombo, ma resta ancora molto lontana purtroppo. «La fusione è di una complessità che non ha pari sulla Terra, tant’è che l’unico posto dove esiste attualmente è il sole. Oggi non riusciamo ancora a generare con continuità più energia di quella che serve per accendere e mantenere in funzione il reattore. Verranno ridotti anche i rifiuti radioattivi da trattare, ma soprattutto in caso di incidente nucleare il massimo che può succedere nella fusione è che il plasma danneggi la camera da vuoto e il reattore si fermi». Sono rassicurazioni che però non bastano a mettere d’accordo il mondo scientifico, divulgatori e operatori nel settore dell’energia. «Perché è mancata una informazione imparziale sul nucleare nel nostro Paese, nessun tecnico ha illustrato al pubblico quello che è effettivamente successo a Chernobyl, per cui è rimasta l’immagine della devastazione e la paura. Mi piacerebbe che si parlasse in modo competente sul nucleare, è giusto che il cittadino decida in coscienza, ma deve essere informato nel modo corretto».

Articolo pubblicato su Business People, dicembre 2021

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