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Carl Benedikt Frey: dobbiamo avere paura dei robot?

Un lavoro su due sarà cancellato dall’automazione: così ha previsto Carl Benedikt Frey nel 2013. Ora l’economista di Oxford torna a discutere le implicazioni della quarta rivoluzione industriale per la nostra società. Con alcuni consigli per sopravvivere nell’era delle macchine

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La tecnologia? È una trappola. Parola di Carl Benedikt Frey, storico, economista e co-direttore dell’Oxford Martin Programme su tecnologia e lavoro. Per anni la comunità economica ha discusso sulla sua previsione, elaborata nel 2013 insieme al collega Michael Osborne, sulla quantità di lavoro umano destinato a sparire a causa dell’automazione: il 47% secondo i due studiosi, almeno negli Usa. Il dibattito ha portato un certo scetticismo nei confronti delle macchine e alla nascita di un sentimento luddista 2.0, che Frey analizza nella sua nuova opera: The Technology Trap: Capital, Labor and Power in the Age of Automation.

Professor Frey, ha senso discutere su come arginare l’automazione? Alcuni governi hanno fatto richieste in tal senso, ma le macchine aumentano produttività e stipendi. È una parabola già vista: politici che tentano di arginare la modernizzazione per evitare tensioni sociali. È lo stesso dibattito che si sviluppò negli anni 30 e negli anni 60. Come ai tempi della Rivoluzione industriale, stiamo assistendo a un processo inarrestabile che nel lungo periodo porterà grandi benefici all’umanità e al mondo del lavoro. Pensate solo alle professioni più pericolose, che sono state ridotte dal 60% al 10% rispetto a un secolo fa, o i compiti più ripetitivi, ormai tutti automatizzati. La verità è che dobbiamo essere grati per la sconfitta dei luddisti, nonostante lottassero per una causa socialmente giusta: godere del progresso derivante dal loro lavoro.

Lo stesso accade oggi? Certo. Nel breve termine la computer revolution sta portando vantaggi solo a pochi, e cioè a coloro che hanno un alto livello di educazione, mentre le fasce più basse della popolazione vedono ridurre il loro potere d’acquisto. Non è un caso che i repubblicani abbiano stravinto nel Midwest portando Donald Trump alla Casa Bianca: è lì che negli Usa si concentrano i distretti industriali con i livelli più alti di automazione.

Questo fenomeno ha portato alla nascita di un movimento di rivolta populista, in crescita in tutto l’Occidente… Le aree dove è stato introdotto il maggior numero di robot, Europa e Stati Uniti, sono quelle più soggette alla crescita del populismo. La globalizzazione e l’automazione, infatti, portano alla perdita di posti di lavoro nella manifattura. Questo fenomeno a sua volta manda in sofferenza il settore dei servizi locali: taxi, negozi di quartiere e artigiani falliscono, se mancano i clienti. Quando queste professionalità scompaiono, le comunità soffrono, cala il benessere collettivo e aumenta il crimine. I dati evidenziano che nelle fasce di popolazione senza un titolo di studio elevato in Usa e nel Regno Unito sono aumentati i suicidi: parliamo delle persone lasciate indietro da questa Quarta rivoluzione industriale. Questi sono i numeri. Spesso, però, si ignora una parte del ragionamento: se le tecnologie create nell’area della baia di San Francisco hanno danneggiato gli operai di Detroit e impoverito l’economia locale di quell’area, allo stesso tempo hanno creato nuovi posti di lavoro nei servizi sulla costa occidentale degli Stati Uniti.

Chi rappresenta queste fasce di popolazione? Penso che una grossa parte del malcontento sia legata al fatto che la sinistra tradizionale oggi è ormai associata ai cittadini con un’alta istruzione, ma soprattutto a temi che appaiono lontani come il cambiamento climatico. La classe operaia si è spostata così verso i partiti conservatori, che ora si occupano anche di stipendi, ferie, tutele. Insomma, i temi tradizionali del lavoro.

Al rifiuto dell’automazione si accompagna sempre più spesso il rifiuto dello straniero. Come mai? Quando vedi il tuo stile di vita peggiorare e la tua comunità che cambia, è naturale combattere la novità. C’è la percezione di una grande competizione per le risorse. Le persone meno istruite – la cui occupabilità è precipitata negli ultimi trent’anni – cercano un capro espiatorio. Per alcuni sono gli immigrati, per altri le macchine. È la stessa fascia di popolazione che ha prima protestato contro la globalizzazione e ora ha abbracciato il techlash (il termine coniato dall’Economist per indicare il senso di sfiducia nei confronti dello strapotere delle big company tecnologiche, ndr).

Come aiutare i lavoratori a “sopravvivere” all’avanzata dei robot? Non c’è una risposta univoca. Il reddito di base, per esempio, non risolverebbe tutto perché richiederebbe un aumento delle tasse, che andrebbe a colpire proprio quelli a cui sarebbe destinato tale sussidio. Per di più, le persone cercano un significato nel lavoro: tutte le ricerche del mondo dicono che i lavoratori sono più felici dei disoccupati. Dobbiamo cercare altre policy, a partire dall’istruzione, quella di base prima di tutto. Non conosciamo i lavori del futuro, ma sappiamo che i bambini con un deficit in matematica e nella lettura faranno fatica nel prosieguo degli studi. Dobbiamo intervenire in maniera precoce.

E come si può ridare vita ai distretti industriali tradizionali? Bisogna investire nelle infrastrutture: connettere le persone e le comunità lavorative è fondamentale per combattere la disoccupazione e il degrado. La città svedese di Malmoe era entrata in crisi negli anni 80 per il rallentamento dell’industria delle costruzioni navali. Grazie al ponte con la Danimarca, i suoi abitanti hanno iniziato a fare i pendolari verso Copenaghen. L’economia è ripartita e oggi è una città in grande sviluppo. Un impatto del genere potrebbe averlo in America la creazione dell’hyperloop per connettere Cleveland e Chicago in 28 minuti.

Credits Images:

© Brian Doherty, Oxford, 2019