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A lezione di leadership con James Cameron

Il set? È come un’impresa. Il grande regista di Titanic e Avatar racconta come nella costruzione dei suoi film metta in pratica empatia e condivisione per responsabilizzare i collaboratori. Gli errori da non fare nell’approcciare i progetti, i consigli da seguire per staccare dai problemi

Nel lavoro non sceglie mai la strada più semplice: per i suoi progetti ha sempre preferito spingersi oltre i limiti, utilizzando approcci rivoluzionari, capaci di innescare il motore del cambiamento. Regista e sceneggiatore di alcuni dei colossal di maggior successo – Titanic e Avatar, solo per citarne alcuni – James Cameron è un innovatore nel suo campo, un esempio perfetto per chi è pronto a uscire dalla comfort zone con l’obiettivo di creare qualcosa di nuovo, senza farsi condizionare dalla realtà e dai problemi. «Penso che i filmmaker siano imprenditori nati, perché il progetto di ogni singolo film è come il lancio di una start up», ha affermato l’artista di fronte alle telecamere del World Business Forum di Milano, evento tenutosi a fine ottobre in modalità digitale a causa delle restrizioni dell’attuale pandemia. Una pandemia che ha colpito duramente il settore dove opera il regista, ma che non ha fiaccato la sua fiducia nel futuro. «La gente ha sempre detto che l’industria cinematografica sarebbe morta, che la televisione, il Vhs, il Dvd, il Blu-Ray e infine lo streaming avrebbero ucciso il cinema. Ma non è stato così. Poi è arrivata la pandemia», che, ammette Cameron, sta mettendo a dura prova la tenuta delle sale. «Senza redditi e incassi per un altro anno sopravvivranno? Difficile fare previsioni, ma penso che gradualmente torneremo al cinema e le persone usciranno da questa pandemia volendo provare ancora più di prima quell’esperienza sociale, perché sarà possibile viverla! Ci renderemo conto di quanto ci è mancata e prevedo una rinascita dell’esperienza cinematografica».

Una fiducia nel futuro testimoniata anche dal lavoro, senza sosta, che il regista sta portando avanti sui sequel del già citato Avatar con un approccio un po’ futurista, perché sta lavorando contemporaneamente ad Avatar 2, Avatar 3 e Avatar 4, film che «sicuramente riporteranno le persone nelle sale». Davanti a un primo successo, com’è possibile continuare a ideare prodotti in grado di toccare nel profondo così tante persone? Anche di fronte a questo interrogativo, Cameron non sceglie la strada semplice: «Credo sia importante analizzare i buoni risultati, così come i fallimenti. Sarebbe semplice passare da un successo a un altro ripetendo sempre le stesse cose, ma non è facile comprendere perché c’è stato quel risultato. Avatar, ad esempio, è stato un successo in tutte le culture, anche in quelle indigene, e dopo quel film non ho voluto scrivere alcun sequel finché non ho compreso quel processo. Ho passato un paio d’anni a cercare di capire cosa stesse succedendo, quali punti avessi toccato».

Le idee, per quanto grandiose siano, hanno bisogno di essere condivise, specie se ci si trova all’interno di un team di lavoro o si è alla ricerca di investitori per il proprio progetto. Anche il regista ha dovuto affrontare i suoi responsabili per convincergli della bontà delle proprie visioni. Come muoversi in questo caso? «La prima domanda che dovete farvi è: chi sto cercando di convincere e perché proprio questa persona? Selezionare l’audience è fondamentale, perché il vostro tentativo avrà successo solo se tocca le persone nella loro esperienza di business. Sì, raccogliete dati, fate business case, conditeli un po’, ma puntate su uditori che vi ascoltino, che percepiscano la vostra mission». Una volta a capo del progetto, come scegliere e motivare il team? Esattamente come in un’azienda: si leggono i cv, si scelgono le persone e si capisce di cosa sono capaci. «Le decisioni che si prendono all’inizio sono fondamentali, perché se fai una selezione sbagliata, vivrai dei momenti molto difficili e non avrai successo; per me, tuttavia, la parte più difficile non è il casting», ammette Cameron, ma affrontare il team quando viene messa in dubbio la leadership. «In quel caso bisogna avere un atteggiamento vincente, parte del lavoro di un leader è ricordare alle persone perché sono lì, prima di tutto».

Il segreto? Il regista non ha dubbi: l’empatia. «Quando ho iniziato, sacrificavo tutto per arrivare al film finito. Era un inferno, lo ammetto, per me e il mio team. L’epifania è stata rendermi conto di avere un lavoro splendido, di collaborare a un processo creativo con persone davvero interessanti, quindi mi sono letteralmente allenato ad amare il lavoro giorno per giorno. Per un leader il difficile non è saper individuare l’obiettivo finale, ma considerare il processo del giorno per giorno. E come posso migliorarlo? Essendo più gentile con le persone: io parlo di più con loro, vedo quali sono i loro problemi, se gli piace il lavoro o c’è qualcosa che non va bene, se qualcosa nella loro sfera personale non funziona. Sì, non sono fatti miei, ma sono anche fatti miei, perché nessuno lavora isolato dal resto del mondo. Questo ti insegna a guardare negli occhi i collaboratori e vedere cosa gli passa per la testa, ti insegna ad ascotarli e incorporare le loro idee in quello che stai cercando di fare. Se non si riesce ad accettare le proposte del team, si avrà a che fare con un gruppo demoralizzato. Forse io ho già una buona idea su quello che bisogna fare», ammette il regista, «ma a volte chiedere il punto di vista degli altri permette a tutto il gruppo di far crescere la reciproca fiducia».

Abbracciare l’empatia non è stata l’unica grande rivelazione per Cameron: «Prima, se qualcuno fosse venuto da me con una scena inutilizzabile o con un errore avrei iniziato ad arrabbiarmi: pensavo che urlando abbastanza avrei impedito nuovi sbagli, come una terapia da avversione. Non funziona così. Se l’errore è stato fatto, l’errore è mio, che sono a capo del progetto. Evidentemente non ho comunicato abbastanza chiaramente, non ho corretto l’errore in tempo. È fondamentale arrivare a quell’epifania dove non attribuisci l’errore agli altri, ma a te stesso».

E di fronte a un grande talento? Quali sono le sfide quando si deve gestire una superstar che sa di esserlo? «L’ego va bene, tutti ce l’hanno, ma va alimentato in maniera sana. Quando abbiamo a che fare con qualcuno che ha la tendenza a fare la diva – e questo si applica in tutti i contesti della vita – la cosa migliore da fare è ricordargli il suo ruolo nel progetto: “Siamo tutti qui per cercare di fare qualcosa di bello e vogliamo che tu tiri fuori il meglio di te”. A volte ci vuole un po’ di tempo, altre volte bisogna eliminare questo divismo». Come? «Io mi sporco le mani, cercando di fare un po’ di tutto e dando l’esempio. Se c’è un attore che non vuole gettarsi nel fango, sono il primo a buttarmici. Se lo faccio io, puoi farlo anche tu. E questo appiana le cose. Sul set sono disposto a fare qualsiasi cosa, non c’è un sistema di gerarchie intoccabili: ognuno ha il proprio valore e non ci sono persone più importanti di altre. Lo so che è difficile ragionare così, ma il mio punto di vista del mondo è che ogni intelligenza umana è un universo: se vi sedete a parlare con una persona, che magari considerate la meno importante del mondo, scoprirete che ha aspirazioni, una famiglia, problemi… Ha una storia. Ogni persona ha una storia. E se riuscite a ricordare questa cosa da leader, vi aiuterà ad aprire canali di comunicazione».

Nell’ambiente Cameron è considerato uno stacanovista, capace di lavorare ininterrottamente per ore. È sano tutto questo e come si gestisce lo stress accumulato? «Per me dormire non è la risposta», ammette il regista. «A volte la mia valvola di sfogo è cambiare soggetto: mentre lavoravo al primo Avatar lavoravo contemporaneamente a un sottomarino (il Deepsea Challenger, realizzato per raggiungere la Fossa delle Marianne, ndr). Dopo aver lavorato tutto il giorno al film, la notte partecipavo a sessioni di ingegneria via mail o in videoconferenza. Rilassarmi su una spiaggia non funziona per me, devo avere qualcosa di diverso da fare per poi tornare ai problemi del mio progetto principale con una prospettiva nuova. So che per qualcuno può funzionare diversamente, ma io mi concedo un’ora la sera, indipendentemente da ciò che sia accaduto durante quella giornata». Cosa accade in quei 60 minuti? «Solitamente ho un bicchiere di chardonnay in mano e la tv accesa, ma potrebbe anche essere un libro o una chiacchierata con mia moglie. Più l’ansia o la tensione si creano durante la giornata, più cerco di concentrarmi facendo altro in quell’ora. Perché so che così elimino lo stress e il giorno dopo sarò migliore. E per me quell’ora è sacra! Tutti nel mio mondo lo sanno e non mi disturbano. Sembra una cosa stupida e semplice, ma se vai a letto pensando ai problemi dell’azienda, ti tormenteranno anche mentre dormi».

Articolo pubblicato su Business People, dicembre 2020

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