Ricette vincenti per la grande ristorazione italiana

Panini, gelati oppure pizza non importa. Per avere successo fondamentale è vantare un format preciso e replicabile. Oltre a puntare sulla qualità e l’italianità dei prodotti

Scegliete un prodotto riconosciuto come italiano, aggiungeteci un’attenzione particolare alla qualità e mescolate il tutto in un format facilmente ricono­scibile e replicabile con caratteristiche originali che lo differenzino dalla mas­sa. Così, in gergo culinario, potremmo descrivere la ri­cetta da seguire per fondare una catena di ristorazione di successo. Almeno stando a quanto emerge guardando al panorama attuale che, a fronte dei dati disastrosi diffusi dalla Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) – per gli ultimi tre anni, si parla di un saldo negativo pari a 25 mila unità tra aperture e chiusure – vede alcuni brand della ristorazione espandersi in Italia e all’estero. Così dopo moda e arredamento, finalmente il nostro Paese inizia a sfruttare le potenzialità di un settore in cui, si sa, eccelle, ma poco valorizzato e troppo esposto alle pessi­me imitazioni e contraffazioni: l’enogastronomia. NUOVE PROMESSE

LA PIZZA? NAPOLETANA NATURALMENTENon potevano nascere che all’ombra del Vesuvio due grandi gruppi italiani che hanno puntato molto sulla vera pizza napoletana, pur senza tirarsi indietro di fronte ad al­tre sfide, che a fianco al marchio di punta ne hanno fat­ti fiorire altri comunque interessanti. Si tratta del gruppo Sebeto, fondato nel 1988 da Franco Manna (oggi presi­dente) e altri due soci, che controlla i brand Rossopomo­doro, Anema & Cozze, Rossosapore, Piazza & Contorni e, di recente, Ham Holy Burger, e del gruppo Emmesei, padre di Fratelli La Bufala, ma anche di Mamma Oliva, Vulkania, Mo ComfortFoodCafe e Chiquita fruit bar. Il primo oggi conta oltre 130 location, in Italia e all’estero, un giro d’affari intorno ai 90 milioni di euro e dà lavo­ro a più di 2 mila addetti. E se il marchio più forte è senza dubbio Rossopomodoro, incentrato su qualità del prodot­to, tipicità dei piatti, caratterizzazione dei locali e conteni­mento dei prezzi, dal 2012 la scommessa è Ham Holy Bur­ger: qui si propone la versione napoletana dell’hamburger, dove la carne macinata è piemontese con presidio Slow Food, il pane fresco e i surgelati banditi. Peccato solo che il gruppo, per accelerare l’espansione, dal 2011 abbia do­vuto fare affidamento su un fondo britannico, viste le lati­tanze tricolori in questo campo.Percorso simile quello di Emmesei, nata nel 2003, il cui punto di forza è il brand Fratelli La Bufala, incentrato su genuinità dei prodotti campani e cucina semplice dai costi contenuti, con particolare attenzione per la pizza napole­tana e, lo dice già il nome, mozzarella di bufala e derivati. Circa 110, ma in continuo aumento, le location in tut­to il mondo, da Istanbul a Miami.

UN SIGNOR PANINO Su un’altra specialità, ma sempre in stile tutto tricolore, ha scommesso Antonio Civita, a.d. e azionista di maggio­ranza di Panino Giusto: «Abbiamo da sempre creduto che il panino potesse diventare nel tempo un prodotto di pari dignità a tutte le altre proposte gastronomiche sul merca­to, affermandosi come alternativa di qualità alla ristorazio­ne tradizionale. Per questo motivo», spiega, «sin dall’ini­zio abbiamo studiato le nostre ricette con la stessa atten­zione e la stessa cura che i grandi chef mettono nell’idea­zione e nella realizzazione dei loro migliori piatti: materie prime eccellenti, abbinamenti gustosi ed equilibrati e preparazione del prodotto al momento». Un format vincente, soprattutto per l’evoluzione dello stile di vita e delle abitu­dini dei consumatori. In special modo nelle città metropo­litane, in cui il ritmo è sempre più incalzante. Non a caso diversi dei circa 30 negozi, oltre che nella nativa Milano, hanno trovato il successo nella frenetica Tokyo. Ma come sventare il rischio di perdere la propria identità? Mante­nendo una vocazione artigianale, senza scendere a com­promessi sulla qualità dei prodotti e del servizio. Per que­sto è nata l’Accademia del Panino Giusto, dove per cia­scun dipendente viene creato un programma personaliz­zato. Così ricette e prodotti sono gli stessi in ogni locale, ovunque ci si trovi.

QUANDO IL BUSINESS È DOLCEAltrettanto fortunato sembra essere il fronte del dolce. Ca’puccino, controllato dalla famiglia Moncalvo, è nato nel 2006 e sbarcato appena un paio di anni dopo nella capitale britannica, niente meno che da Harrods, dove il cappuccino all’italiana si è conquistato uno spazio no­nostante la concorrenza agguerrita di un colosso come Starbucks. Tanto che oggi gli store, a Londra, sono ben tre. E l’opinione diffusa è che questa sia proprio la pri­ma città su cui puntare per mettere le basi di un’espan­sione mondiale. Regola che, però, non vale per tutti, vi­sto che le gelaterie Grom, frutto dell’impegno impren­ditoriale di Federico Grom e Guido Martinetti, hanno raggiunto Stati Uniti, Francia e Giappone senza varca­re i confini della “perfida Albione”. «Londra è il centro retail più importante in Europa e fa certamente da car­tina tornasole sulla qualità dell’attività che si sta svi­luppando», ammette Grom, «ma il nemico numero uno del gelato è la pioggia e si può tranquillamente dire che nella capitale britannica la pioggia più che un rischio è una certezza. Ecco perché, almeno per il momento, ab­biamo ritardato lo sbarco Oltremanica». A contraddistinguere il format è un’attenzione quasi maniacale alla qualità delle materie prime, per rispondere a una mis­sion ambiziosissima: arrivare a produrre il miglior gelato del mondo. «Obiettivo mai raggiunto, ma che ci spin­ge a fare meglio ogni giorno», sottolinea. Ad aiutarli a raggiungerlo, dal 2011, c’è anche un nuovo partner di minoranza (si parla del 5%), ma con nome ed esperien­za importanti: Illy.

ARTIGIANALI E ACCESSIBILI Impossibile concludere questa rassegna senza citare il fe­nomeno Eataly, nato con l’intento di smentire l’assunto secondo il quale i prodotti di qualità sono a disposizione solo di una ristretta cerchia di privilegiati, poiché spesso cari o difficilmente reperibili. Come? Riunendo un gruppo di piccole aziende artigianali, riducendo all’osso la catena distributiva e creando un rapporto di contatto diretto tra il produttore e il distributore finale, saltando i vari anelli intermedi della catena. Il tutto con la consulenza di Slow Food Italia. Così la ristorazione ha incontrato la distribu­zione e, spesso, opportunità didattiche sul fronte del gusto. Non solo in Italia, ma anche in Giappone (da Osaka a Yokohama ai numerosi store di Tokyo) e a New York. Ed ora, grazie alla sinergia con 360 Capital Partners, anche nel mercato digitale con Eataly Net.

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