Money for nothing

Gli aiuti inviati dall’Occidente ai Paesi poveri servono veramente? Secondo l’economista Dambisa Moyo vanno solo a perpetuare malgoverni e violenze. Al contrario sarebbe necessario incentivare il microcredito, il commercio solidale e gli investimenti diretti sul territorio

Come reagireste se vi dicessero che negli ultimi dieci anni tutta la beneficenza che avete elargito è servita per scopi esattamente contrari rispetto a quelli che pensavate di sostenere? Per esempio: se gli ultimi 5 euro che avete dato alla mensa dei poveri fossero serviti a un ristorante di lusso per comprare il caviale da vendere ai propri clienti. O se i 10 euro che avete regalato alla polisportiva giovanile fossero finiti nelle casse di una squadra di serie A per comprare un campione straniero per una cifra esorbitante. Vi arrabbiereste, vero? Anche Dambisa Moyo si è piuttosto arrabbiata scrivendo un libro che ha fatto molto rumore negli ambienti politici ed economici dell’Occidente. Si chiama Dead Aid che può essere tradotto con: «Gli aiuti che i Paesi ricchi hanno dato all’Africa negli ultimi dieci anni sono andati a ingrassare le dittature dei Paesi più poveri del mondo che proprio grazie ai soldi dell’occidente sono riuscite a perpetuare le violenze sul popolo». Ok, è una traduzione un po’ libera, ma dà il senso. Ora: il fatto curioso è che Dambisa Moyo non è un’occidentale, è un’africana, cioè una persona che dovrebbe fare i salti di gioia per ogni euro che l’Occidente elargisce al suo continente. E invece no: la Moyo sostiene la tesi contraria e, in pratica, supplica l’Occidente di smetterla di fare beneficenza. O, almeno, di smettere di farla come l’ha sempre fatta perché è “money for nothing”.

Incentivare il microcredito

La Moyo è un’affascinante economista nata in Zambia, che ha studiato a Oxford e Harvard, ha lavorato alla Banca Mondiale e alla Goldman Sachs e, da quell’osservatorio, si è fatta un’idea piuttosto precisa di come vanno le cose nel mondo degli aiuti allo sviluppo ed è arrivata alla conclusione non scontata. Ovvio che una persona così sia portata dall’Occidente in palmo di mano, tanto che il New York Times ha incluso il suo libro nella top ten delle letture “obbligate” e che il Time Magazine l’ha inserita, forse in modo un po’ esagerato, tra le 100 donne più influenti del mondo. Se davvero si vuole aiutare l’Africa e i suoi poverissimi abitanti, scrive la Moyo nel suo fortunato best seller, la strada deve essere quella di incentivare il microcredito, il commercio solidale e gli investimenti diretti sul territorio. E, soprattutto, perché invece di aiutarci, dice la Moyo agli occidentali, non date la possibilità ai contadini africani di vendere le loro merci sui mercati protetti europei e americani? E poi, continua il libro, se continuate a finanziare gli Stati malgovernati, continueremo a essere malgovernati. Per cui: basta, grazie. «A causa degli aiuti milioni di africani» scrive la Moyo «sono oggi più poveri. La miseria e la povertà non sono diminuite, ma aumentate».Ma che ne pensa chi gli aiuti in Africa li porta davvero? Chi, insomma, è impegnato sul campo? Alberto Piatti è uno di questi. È il direttore generale dell’Avsi di Milano, l’organizzazione che segue oltre cento progetti di solidarietà internazionale in 39 Paesi del mondo. Moyo o non Moyo Piatti boccia la parte più estremistica del ragionamento dell’ex banchiera: «Bloccare gli aiuti occidentali all’Africa? Non voglio nemmeno immaginarlo: ci sono Paesi il cui Pil dipende al 70% dagli aiuti internazionali». Però non può non ammettere che «occorre rivedere soprattutto i meccanismi che regolano il flusso dei capitali dall’occidente ai Paesi poveri perché spesso, nella migliore delle ipotesi, si fermano nei mille rivoli burocratici e, nella peggiore, finiscono effettivamente nelle mani delle persone che detengono il potere nei Paesi destinatari». Riformare come? «Gli interlocutori degli aiuti non debbono più essere gli Stati, ma le organizzazioni che lavorano sul territorio». Piatti spiega anche un altro rischio: quello del gigantismo obbligato. «A volte succede che occorre spendere i soldi, altrimenti se ne perde il diritto quindi anche solo per portare acqua a un villaggio si costruisce una diga. Spesso basta un piccolo pozzo per cambiare la vita di un villaggio». I critici delle teorie della ex banchiera non mancano. Bob Geldof, organizzatore del concerto Live Aid (titolo parafrasato dalla ex banchiera per il titolo del suo libro) e guru degli aiuti all’Africa, le si è scagliato contro accusandola, in pratica, di volere affamare un intero continente mentre l’economista Jeffrey Sachs, parlando al Financial Times, ha rivendicato agli aiuti occidentali «l’evidente successo della crescita economica, ad esempio, del Rwanda». Non è d’accordo William Easterly, docente di economia alla New York University, co-editore del Journal of Development Economics e vera autorità nel campo degli aiuti allo sviluppo che non si è fatto scappare l’occasione di sottolineare i tanti casi nei quali la cooperazione tra Stati occidentali e africani si è rivelata inutile o addirittura dannosa. Insomma: la Moyo ha ragione?«Non del tutto», riprende Alberto Piatti, «è certamente vero che gli interlocutori degli aiuti occidentali non possono essere gli Stati dei Paesi poveri, ma detto questo il rischio è quello di lanciare nuove ideologie». Per esempio quella del commercio solidale: «È un mercato assolutamente di nicchia ed è la riproposizione laica dei vecchi mercatini dei missionari. Non credo davvero che possa da solo risolvere il problema del sottosviluppo. La verità è che gli aiuti dovrebbero servire per sostenere la libera intrapresa delle persone che si danno da fare nel luogo in cui sono nate». E per il fatto che l’Italia continua a non rispettare le scadenze per gli aiuti promessi e mai dati? «È evidente» rileva Piatti, «che non abbiamo soldi, ma il dato sul quale riflettere è un altro e cioè che negli ultimi 15 anni la somma degli aiuti che ogni anno partivano dall’Italia verso i Paesi poveri è rimasta stabile. Sotto qualsiasi governo, di destra o di sinistra, gli aiuti non sono né aumentati né diminuiti. È la chiara dimostrazione che l’aiuto ai Paesi in via di sviluppo non è un tema elettoralmente sensibile, non è un argomento sul quale un partito o un governo costruisce il consenso, non esiste una pressione da parte dei cittadini italiani ma direi occidentali, ad aumentarli».

La prova dei fatti

Proviamo a guardare qualche numero. Dal 1966 la crescita economica dei Paesi sub sahariani è stata di circa il 2,3% l’anno. E non grazie all’esportazione di petrolio, dato che tra queste nazioni ve ne sono 18 che non sono esportatrici di petrolio e, nonostante questo, sono cresciute più della media: il 3,1%. E la maggior parte di questi Paesi sono oggi democratici: Mozambico, Tanzania, Ghana, Lesotho, Namibia, Mali, Sud Africa e così via. Per di più molti di questi hanno oggi un governo molto migliore di un tempo, anche se definirli democratici è ancora impossibile, almeno per i nostri standard. In tutta l’Africa il tasso di alfabetizzazione cresce, la mortalità infantile diminuisce e nel 2008 sono andati a scuola 34 milioni di bambini in più di quanti non ci siano andati nel 2000. Secondo la Banca Mondiale il tasso di povertà (stabilito in meno di 1,25 dollari al giorno per persona) era 59% nel ‘96 rispetto al 51% del 2005. La povertà in Africa sta calando, non aumentando, come dice la Moyo, che non si fa spaventare dai dati e sostiene che sarebbe bene che gli aiuti dai Paesi ricchi finissero entro cinque anni. «Un termine un po’ aggressivo», ha commentato il presidente del Rwanda, Paul Kagame, uno dei pochi leader africani a essersi schierato a favore delle tesi della Moyo. Se l’economista Sachs ha citato il Rwanda come esempio dell’utilità degli aiuti, il suo presidente dice una cosa un po’ diversa: «Fino a quando le nazioni povere si aspetteranno aiuti dall’estero» ha scritto in un articolo sul Financial Times, «non si applicheranno per far crescere dal basso le loro economie. Io ho sempre pensato che la discussione che si dovrebbe aprire dovrebbe avere come tema la fine degli aiuti: quando farli terminare e qual è il modo migliore per farlo». E, per dimostrare che le sue non sono solo parole, ha spiegato che negli ultimi dieci anni il Rwanda ha tagliato gli aiuti esteri per un importo pari alla metà del proprio Pil. E l’economia è cresciuta dell’11% nel 2008. Dovremmo essere soddisfatti, qua in Occidente: se il Rwanda è cresciuto così tanto nonostante abbia incassato meno soldi occidentali. Dovremmo aspettarci la stessa performance da tutti gli altri Stati poveri dell’Africa? E che fare con quei Paesi che non hanno possibilità di sviluppo a causa di guerre tribali? In quel caso non solo gli aiuti sono decisivi, ma vanno accompagnati con l’assistenza militare dei caschi blu. Se va avanti così l’ex banchiera avrà presto la possibilità di verificare se le sue teorie resistono alla prova dei fatti. Dal 2005 a oggi pochi Paesi dell’Ocse hanno raggiunto il target di destinare ai poveri lo 0,7% del Pil. Gli aiuti calano. Adesso dobbiamo solo aspettarci che aumenti la ricchezza africana. La Moyo attende impaziente.

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