«Un capo è come un pastore: sta dietro al gregge e fa in modo che le pecore più sveglie vadano avanti, così che le altre siano stimolate a seguirle senza rendersi conto che per tutto il tempo c’è alle spalle qualcuno che le guida». Prima di pensare che sia stato un pazzo a scrivere questa frase, sappiate che a pronunciarla è stato Nelson Mandela. E se credete che di questi leader, disposti a stare “dietro” invece di guidare la truppa, non ce ne siano molti, sappiate che Linda Hill li ha incontrati e studiati per dieci anni. Ne ha osservati in particolare 16, originari di sette Paesi – Stati Uniti, certo, ma anche Emirati Arabi, India, Europa – e ha raccolto le loro storie nel volume Il genio collettivo (FrancoAngeli, 261 pagg., 25 euro). «Non il solito manuale di management», assicura l’autrice, bensì una vera e propria guida per capire – grazie a un’osservazione etnografica durata ben dieci anni – come alcuni leader siano riusciti a mettere in piedi delle organizzazioni davvero innovative. Abbiamo incontrato la titolare della cattedra di Business Administration alla Harvard Business School – al 6° posto della classifica Thinkers50, una sorta di “Oscar del pensiero manageriale” – a fine 2015 a Torino, dove si trovava per l’evento L4I Leading for Innovation, organizzato da Maurizio Travaglini con la sua società Architects of Group Genius. Non è la prima volta in Italia per la Hill: ci era già stata per studiare gli anni ruggenti di Franco Bernabei all’Eni. Stavolta ad accompagnarla c’era il coautore principale della sua ultima fatica, Greg Brandeau (gli altri sono Emily Truelove e Kent Lineback): non uno studioso, bensì il direttore tecnologico della Pixar che, da oggetto di ricerca, si è talmente immerso nello studio da volersi “mettere dietro” al progetto.
Il segreto di un’organizzazione innovativa è mantenere quanto più possibile l’equilibrio tra due poli
– FAR EMERGERE IL SINGOLO… E IL GRUPPO
– GARANTIRE SUPPORTO… E INCORAGGIARE IL CONFLITTO
– SOSTENERE LA SPERIMENTAZIONE… E IL RENDIMENTO
– PROMUOVERE L’IMPROVVISAZIONE… E LA STRUTTURA
– MOSTRARE PAZIENZA… E TRASMETTERE UN SENSO D’URGENZA
– STIMOLARE L’INIZIATIVA DAL BASSO… E INTERVENIRE DALL’ALTO
Professoressa Hill, l’innovazione ha dunque bisogno di nuovi leader: non boss autoritari, né timonieri che indicano mission da seguire. Qual è il ruolo del manager di terza generazione?Deve essere quello di riconoscere e mettere insieme tutte le “fette di genialità” dei suoi collaboratori e di circondarsi della maggior quantità di talento possibile, di persone più intelligenti di lui. Si è sempre detto che non bisogna avere troppi galli nel pollaio perché litigheranno, ma questo non vale più: la concorrenza non è più sull’efficienza o sulla riduzione dei costi di produzione, bensì sull’innovazione. Anche se poi, spesso, le aziende innovative finiscono per produrre anche in maniera più conveniente, perché non dividono l’ambito esecutivo da quello progettuale. Il leader perciò non deve essere necessariamente il frontman, ma deve fare in modo che le rockstar collaborino al meglio per risolvere i problemi. I visionari cambiano il mondo, non guidano l’innovazione.
Ma se tutti siamo in fondo dei geni, vuol dire che i grandi della storia – Archimede, Leonardo, Albert Einstein, Steve Jobs – non lo erano per davvero fino in fondo?Sì che erano dei geni, e per questo abbiamo il privilegio di poterli studiare. Ma l’idea che la maggior parte dell’innovazione arrivi dallo “aha! moment”, di un singolo individuo non è reale. Howard Gardner, lo psicologo che ha teorizzato l’intelligenza multipla, sostiene che il genio cresce e lavora in un contesto. Michelangelo aveva una serie di collaboratori. E una delle più grandi invenzioni di Thomas Edison è stato il laboratorio moderno, che dà alle intelligenze migliori gli strumenti per esprimersi. Troppo spesso ci dimentichiamo che le grandi invenzioni sono il frutto di un lavoro collettivo: l’“eureka!” non arriva all’improvviso, bensì un passo alla volta.
Quali sono dunque i passi da seguire per creare un’organizzazione innovativa?Il problema è proprio questo: non ci sono dei momenti definiti. Ci sono montagne di libri che parlano di step da seguire nelle aziende, ma l’innovazione invece è caotica. Descrivere un “percorso” implica una pianificazione, ma non puoi prevedere come si svilupperà il processo innovativo. Il vantaggio del metodo etnografico è che non deve dare risposte, solo osservare il problema nella sua complessità senza semplificare.
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Ci sono però tre momenti che avete identificato studiando questi casi esemplari: l’“abrasione creativa” che genera idee, l’“agilità creativa” di provare e sperimentare fino ad arrivare a una “risoluzione creativa” combinando anche idee opposte. Si decide dunque, tutti insieme?Bill Coughran, uno dei soggetti dell’osservazione e capo della divisione infrastrutture di Google, ci ha detto: «Le persone non vogliono seguirti nel futuro, ma crearlo insieme a te». Il processo decisionale nelle aziende che abbiamo osservato, però, è molto chiaro: si sa chi ha l’ultima parola. Parlando del caso tipico della Pixar, è il regista che sceglie quali scene inserire nel prodotto finale. Se una persona fa un’osservazione, dice la sua opinione a proposito di un passaggio, può anche essere ignorata. Ma se sono in tante, scatta qualcosa, un meccanismo che fa riflettere. Le decisioni spesso devono “scorrere” verso chi ne sa di più, non verso chi ha il titolo più alto.
A proposito della Pixar, la storia del suo collega Greg – assunto «dopo una discussione durata dieci minuti con Steve Jobs» – è la prova di quello che lei scrive: un manager deve assumere persone che non sono d’accordo con lui?Un problema delle aziende è che la figura del boss crea un timore che impedisce alle persone di esprimere le loro idee. Uno dei compiti del leader deve essere quello di creare un ambiente dove tutti hanno la sicurezza psicologica di dire quello che stanno pensando. Il manager deve essere un modello, deve guidare con l’esempio per creare un’organizzazione con un senso di comunità profondo, fatto da uno scopo comune, valori condivisi e regole d’ingaggio per gestire le interazioni. Esaltare la diversità e tutti i punti di vista è una base fondamentale per creare innovazione.
Una delle esperienze più impressionanti raccontate nel libro è quella di Vaneet Nayar, che ha portato l’indiana Hcl Technologies dall’orlo del baratro a essere uno dei giganti nella fornitura di soluzioni It. Il suo segreto è stato “invertire la piramide”, mettendo al primo posto per importanza i dipendenti e la loro relazione col cliente. Quanti manager sarebbero disposti a rovesciare il proprio mondo?Vaneet è uno maggiori provocatori al mondo, nel vero senso della parola, un autentico fenomeno. Ha capito che l’innovazione nasce bottom up e ha messo a disposizione uno strumento interno per rivolgergli qualunque domanda o proposta. E le sue risposte erano consultabili da tutti in nome della trasparenza. Una delle mosse più interessanti è stato il “trust pay”: niente più retribuzioni in base alle performance, ai suoi ingegneri ha detto «mi fido di voi», e ha accordato loro i bonus di stipendio in anticipo. Così le persone si sono potute concentrare sul fare il loro lavoro al meglio, senza pensare ossessivamente ai risultati e al denaro. Hanno pensato a che cosa avrebbero potuto fare per stupire i clienti e non a che cosa dovevano fare per loro stessi. È stato rischioso, ma c’era una filosofia dietro: non serve tagliare i costi del 10%, è sempre meglio aumentare la produttività del 10%.
Un’esperienza affascinante, ma allora perché nel libro si dice che il lavoro innovativo è “spaventoso”?Lo è per tutta una serie di ragioni, soprattutto perché quando ti avvicini al limite è altissima la probabilità di fallire. E a nessuno piace fallire. È poi un lavoro pieno di paradossi di difficile equilibrio (vedi box): quando sto per contraddire il mio capo, non so mai se lui sarà davvero disponibile ad accettare la mia opinione. Pochissime persone amano il conflitto: questo lavoro è una presa di rischio collettiva.
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