Re-Bello: stile sostenibile

Cosa si ottiene unendo gusto italiano e attenzione per l’ambiente? Un giovane marchio capace di riscuotere ampio consenso per la sua sostenibilità. Il co-fondatore Daniel Sperandio racconta a Business People la storia di Re-Bello

Le reti da pesca rigenerate, le fibre ricavate dal faggio o dal bambù e persino la plastica Pet che serve per fare le bottiglie e i boccioni dell’acqua minerale. In Alto Adige, a pochi chilometri da Bolzano, c’è un’azienda che con questi e altri materiali riesce a fare ciò che poche persone probabilmente si aspettano: vestiti, maglioni, giacche, cappotti, t-shirt e felpe. Si tratta della Rb More di Pineta di Laives, casa di abbigliamento proprietaria del marchio Re-Bello, che ha inventato il fashion ecosostenibile, un nuovo modo di vestire per chi crede che il rispetto dell’ambiente, la salvaguardia del pianeta e la sostenibilità del business siano principi irrinunciabili. A pensarla così è sicuramente Daniel Sperandio, classe 1985, originario di Vipiteno, che ha fondato la Rb More e il marchio Re-Bello assieme a Daniel Tocca ed Emanuele Bacchin, due suoi amici di Bolzano che conosce fin dai tempi delle scuole superiori. Oggi l’azienda dei tre giovani altoatesini, tutti poco più che trentenni, fattura oltre un milione e mezzo di euro dopo appena cinque anni di vita. «Circa la metà dei nostri ricavi deriva dalle vendite sui mercati esteri», dice Sperandio, «soprattutto nei Paesi più vicini come l’Austria o la Germania, ma anche la Svizzera e l’Olanda».

La moda ecosostenibile, insomma, piace anche agli stranieri… Direi che è una moda dalle grandi potenzialità, sia in Italia che all’estero. Noi crediamo che nel settore dell’abbigliamento ci sarà più o meno lo stesso trend che si registra, già da parecchi anni, nel comparto del food.

A cosa si riferisce? I cibi biologici hanno trasformato e stanno trasformando l’industria alimentare. Chi ha a cuore la salute e la sostenibilità oggi vuole mangiare bio.

Dunque? Se moltissime persone di nutrono di cibi naturali, fatti con materie prime di qualità e prodotte con processi a basso impatto ambientale, perché non dovrebbero fare la stessa cosa quando si vestono? Forse molti non lo sanno, ma l’industria tessile è una delle più inquinanti che esistano. Perché anche quando usa materie naturali come il cotone, è una delle più a rischio per l’ambiente, a causa dell’utilizzo di pesticidi chimici in quantità ingente e per gli elevati consumi d’acqua che impoveriscono i terreni e le superfici coltivabili.

E allora come si fa a rendere la moda ecosostebibile? Oltre a utilizzare materiali riciclati, come per le esempio la plastica Pet, che serve per fare le bottiglie, utilizziamo fibre ricavate da alberi e piante come il faggio o il bambù, che hanno un basso consumo d’acqua e una crescita veloce, impedendo così una deforestazione selvaggia. Nelle nostre scelte non siamo radicali, ma pragmatici.

In che senso? Sappiamo ovviamente che non esiste la fibra perfetta, ma ciascuna ha i suoi vantaggi. In ogni caso, nella nostra azienda operiamo sempre cercando di minimizzare l’impatto sull’ambiente, valutando ogni volta la soluzione più efficace. La nostra convinzione è che ogni singola azione nel rispetto della natura può portare un cambiamento dell’intero sistema produttivo.

Torniamo alla vostra azienda, come è iniziata l’avventura di Re-Bello? L’idea iniziale è stata di Daniel Tocca, quando si trovava in Olanda per fare un percorso di studi specialistico in business administration. Daniel si rese conto che lì la moda ecosostenibile era già molto avanti e c’era grande attenzione tra i consumatori verso questi temi. Ma in fin dei conti mancava qualcosa.

Che cosa? I vestiti non erano bellissimi, c’erano dunque grandi opportunità per far crescere un business ancora in fase embrionale, arricchendolo di stile e rendendolo più in linea con le tendenze. Ecco allora che siamo stati coinvolti da lui nel progetto di creare Re-Bello. Io, Daniel ed Emanuele Bacchin, l’altro nostro socio, siamo amici da anni e abbiamo sempre coltivato fin da ragazzi l’idea di diventare imprenditori.

Alla fine ci siete riusciti… Sì, anche se il nostro progetto è rimasto in gestazione almeno un paio d’anni. Poi, tra il 2012 e il 2013, siamo passati dalle parole ai fatti.

Come? Abbiamo elaborato un vero e proprio business plan e siamo stati sostenuti inizialmente da un incubatore d’impresa della nostra zona. Poi, un giorno, a un evento dedicato alle start-up e organizzato per gli investitori istituzionali, siamo stati notati dai manager di LVenture e siamo entrati in contatto con loro. Hanno deciso di sostenerci entrando nel capitale della nostra azienda.

Con dei soci istituzionali nell’azionariato, la crescita è stata più facile? Diciamo che abbiamo iniziato un percorso di sviluppo ben definito. Prima il nostro business si limitava a capi di abbigliamento più semplici come le t-shirt, poi, gradualmente, abbiamo ampliato la gamma fino ad arrivare al total look. Nel frattempo abbiamo lavorato anche con una stilista di fama come Ivana Omazic, che in passato è stata creatrice di moda anche per marchi importanti come Prada e Jil Sander, che ha collaborato con Re-Bello fino all’ultima collezione che abbiamo lanciato.

La produzione è in Italia? Siamo una piccola azienda, ma abbiamo già una struttura articolata. Alcune produzioni di capi meno elaborati le abbiamo esternalizzate in Turchia, altre di medio livello in Grecia e poi ci sono quelle di alta gamma che sono in Veneto. Le teniamo in Italia, così come l’ufficio stile.

Siete una piccola multinazionale insomma… Abbiamo cercato di dotarci della migliore struttura per crescere. Ovviamente, le produzioni di livello superiore vogliamo tenerle vicino a noi, abbiamo la necessità di controllarle con un po’ più di attenzione.

Tre persone sulla plancia di comando. Non ci sono sovrapposizioni? Ci dividiamo i compiti alla perfezione. I miei due soci hanno sempre curato di più la parte commerciale e di marketing. Io, invece, sono Chief Operations Officer, cioè curo tutta la parte operativa dell’azienda. Il nostro sodalizio va avanti da anni proprio perché ognuno ha scelto la funzione per la quale si sente più portato.

*Articolo pubblicato sul numero di Business People novembre 2017

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