Sociale è meglio: intervista a Fabrizio Gavelli di Danone

Il capitalismo votato al solo profitto è ormai giunto al capolinea. Il futuro è delle imprese che sanno generare valore anche per la comunità in cui operano, prestando attenzione all’ambiente e alle implicazioni etiche delle loro scelte. Ne è convinto il presidente e a.d. della società in Italia & Grecia che, dopo avere applicato in azienda un modello di business innovativo, ha anche voluto condividerlo in un libro

Fabrizio-Gavelli-DanoneCon esperienze pregresse in Procter & Gamble, 12Snap e Reckitt Benckiser, Fabrizio Gavelli è entrato in Danone nel 2005. Da allora ha ricoperto ruoli di responsabilità crescente fino a raggiungere, nel 2021, quello di presidente e a.d. di Danone Italy and Greece

«Ogni anno in Italia si investono circa 10 miliardi di euro in pubblicità. Si tratta di dati in progressiva crescita, basti pensare che nel bimestre gennaio-febbraio la spesa in questo campo è aumentata del 3,7%, un andamento positivo che per i principali dieci settori segna il +13,3% (dati Nielsen, ndr). Immaginiamo che virtuosismo si generebbe se le aziende decidessero di dedicare anche solo una piccola parte di questi investimenti a progetti capaci di costruire il proprio brand e allo stesso tempo avere un impatto sociale». Sono parole di Fabrizio Gavelli, presidente e amministratore delegato di Danone Italia & Grecia, che proprio per spingere le imprese in questa direzione ha voluto raccontare il modello di business innovativo nato in Danone Italia nel libro Il megafono sociale. Un nuovo modello di creazione del valore (Harvard Business Review), curato dalla giornalista Maria Cristina Origlia. Un modello di business che amplifica l’impegno sul tema della sostenibilità partendo dalle risorse più preziose, i singoli brand, per generare un impatto positivo sulla società, grazie al coinvolgimento delle persone in cause sociali. Lo abbiamo incontrato per saperne di più.

Perché ha voluto condividere il modello di business di Danone dedicandogli addirittura una pubblicazione? E perché farlo proprio adesso?
Perché è un modello aperto che non deve rimanere confinato dentro le nostre mura. Siamo convinti che i nostri brand debbano perseguire obiettivi non solo economici, ma anche sociali e, nel fare questo, abbiamo creato un modello che mettiamo a disposizione di tutte le imprese. Perché farlo ora? Per due ragioni. In primis perché lo abbiamo applicato con alcuni nostri marchi importanti e, quindi, possiamo portare non solo discorsi teorici, ma anche esempi concreti. In secondo luogo, perché credo che oggi sia più che mai necessario generare valore condiviso nella società.

Nel testo parla di megafono sociale, cosa significa?
Per comprenderlo è sufficiente analizzare le due parole. Megafono indica la volontà di amplificare un messaggio, mentre l’aggettivo sociale specifica la volontà che questo messaggio non miri solo a far vendere di più e, quindi, a ottenere maggiore profitto, ma anche a sensibilizzare e avere un impatto sulla società. Per questo abbiamo studiato un percorso in sette fasi che parte proprio dal brand con i suoi asset tangibili e intangibili, da affiancare – secondo passo – a una causa socialmente rilevante. Segue l’individuazione di un partner esperto, che ci aiuti nel diffondere il messaggio. Quarto, bisogna individuare un’azione che porti risultati concreti. Quinto, si sviluppa a supporto una campagna creativa che coinvolga anche un ambassador vicino alla causa, che ci porti a essere sì un megafono, ma soprattutto un megafono credibile. Il sesto punto è, poi, il coinvolgimento dei collaboratori terni, mentre il settimo è l’impatto che l’azione è in grado di generare, che noi suddividiamo in impatto sociale, mediatico e di business. Per noi è fondamentale che tutti questi aspetti funzionino in modo sinergico.

Ci può fare un esempio concreto?
Ne posso fare due. Il primo per noi è molto importante perché le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte in Italia, e uno dei primi campanelli di allarme è il livello di colesterolo, che il nostro prodotto Danacol mira a ridurre. Seguendo il modello del megafono sociale, siamo quindi partiti da Danacol e dalle sue caratteristiche, abbiamo individuato una causa che è appunto la prevenzione delle malattie cardiovascolari e un partner esperto come il Policlinico Gemelli di Roma. L’azione è da un lato portare avanti una campagna di sensibilizzazione, dall’altro riuscire a promuovere 60 mila controlli del colesterolo. Abbiamo successivamente elaborato una campagna che affrontasse questa problematica complessa in modo semplice e divertente e individuato un ambasciatore, che è Elio di Elio e le storie tese. Le nostre persone stanno collaborando anche partecipando alla Longevity Run e ad altre iniziative di sensibilizzazione. E poi, infine, misuriamo l’impatto attraverso il numero di check up che riusciamo a fare e all’aumento della consapevolezza sulla necessità del controllo del colesterolo. Dati che ogni anno misuriamo con il Policlinico Gemelli.

E il secondo?
È un esempio un po’ diverso, la collaborazione di Danette e PizzAut. In particolare, i nostri collaboratori e i lavoratori di PizzAut hanno realizzato insieme una campagna per far conoscere la pizzeria e sensibilizzare sull’autismo. Anche in questo caso il testimonial è stato Elio, che ha un figlio autistico. L’impatto mediatico è stato enorme: il video ha totalizzato 44 milioni di visualizzazioni e ora per prenotare un posto nei locali di Monza e Cassina de’ Pecchi ci vogliono due mesi.

Lei scrive che «la sostenibilità economica non ha futuro senza la sostenibilità sociale, ambientale ed etica». Quanto pensa sia condiviso tale punto di vista in questa fase storica dell’economia nazionale e globale?
Vedendo anche la partecipazione alla presentazione del libro, secondo me è un punto di vista condiviso da molte aziende, ma che interessa anche i media e istituzioni di tutti gli schieramenti politici. Questo ci fa pensare che in Italia in molti siano convinti che le imprese debbano avere anche un impatto sociale nel mondo in cui operano.

Quindi, il capitalismo come lo conosciamo è definitivamente giunto al capolinea?
Il pensiero che ha prevalso in questi anni è quello formulato da Milton Friedman nel 1972, secondo il quale l’unica cosa che conta è generare valore per gli azionisti. Ormai però le teorie economiche si muovono in direzioni molto diverse. Persino Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, ha osservato che la valutazione degli investimenti non può più prescindere da quella dei bilanci di sostenibilità delle imprese. Perché l’impatto ambientale è fondamentale nella gestione del rischio: è evidente che se per la produzione è necessaria una materia prima in via d’esaurimento, nel giro di pochi anni un certo business non potrà più esistere.

Fabrizio Gavelli in occasione della presentazione del libro Il megafono sociale. Un nuovo modello di creazione del valore

In Il megafono sociale lei riporta un discorso tenuto dal fondatore di Danone, Antoine Riboud, nel 1972 in cui si esplicita una visione dell’impresa all’avanguardia ancora oggi: si parla di lotta alle disuguaglianza, libertà, responsabilizzazione e qualità della vita dei dipendenti, salvaguardia del pianeta, coinvolgimento sociale, sicurezza sul lavoro… Possibile che, a distanza di oltre 50 anni, siano stati fatti così pochi passi avanti?
La verità è che i progressi dell’umanità richiedono tempo. Cinquant’anni sono tanti e viene da pensare che dovremmo essere in una situazione migliore: è innegabile che potremmo fare di più, ma bisogna anche riconoscere che parte di quanto sostenuto da Riboud, nel frattempo sia stato implementato in Danone come in molte altre aziende. Io amo sempre ricordare le righe conclusive di quel discorso, in cui dice: «non dobbiamo dimenticare che, mentre le risorse energetiche sulla Terra sono limitate, quelle dell’uomo sono infinite se si sente motivato».

Danone Italia ha concretizzato la sua attenzione alla sostenibilità diventando Società Benefit e B Corp già nel 2020: quali ricadute avete registrato in questi quattro anni?
Abbiamo sempre ritenuto il passaggio a Società Benefit e la certificazione B Corp un punto di partenza e non di arrivo, perché sono in grado di generare una maggiore sensibilità su certi temi sia all’interno dell’azienda, sia tra fornitori e clienti. Iniziamo tutti i meeting con qualsiasi partner parlando di questo, perché per noi essere una B Corp vuol dire cercare di capire ogni giorno come si concretizza il nostro impegno. Per esempio, dopo aver ottenuto la certificazione di parità di genere, abbiamo deciso di assegnare un punteggio superiore nelle nostre gare ai potenziali fornitori che hanno anch’essi questa certificazione. Ora l’obiettivo di Danone è raggiungere la certificazione B Corp a livello globale. Ci siamo vicini, pensiamo di riuscirci entro il 2025 come programmato.

La filiale italiana è stata un po’ una pioniera anche nel gruppo su questo fronte. Un altro aspetto in cui siete stati precursori è la policy di sostegno alla genitorialità, poi estesa anche ai caregiver. Come è nata questa iniziativa e che risultati avete raggiunto?
Siamo partiti nel 2011. Il principio di base era di fare sempre più di quanto garantito dallo Stato. Per esempio, se la legge garantisce dieci giorni di paternità, noi ne diamo 20. Lo scopo non è “solo” quello di rispondere ai bisogni psicoaffettivi dei neogenitori, di cambiare la cultura della genitorialità e adeguare il modello organizzativo spostandosi sempre più verso il lavoro per obiettivi, dando valore al tempo della cura, ma anche di far emergere le nuove competenze che accompagnano tale esperienza. Diventare padre o madre è un training on the job nella gestione multipla delle priorità, che spesso in azienda viene insegnato in corsi in aula di diverse ore… I risultati ottenuti in questi anni sono stati straordinari: il 100% delle donne che vanno in maternità rientrano al lavoro, in azienda abbiamo un tasso di natalità all’8%, il tasso di donne manager è del 55%, quello di promozioni femminili del 65% (di cui il 14% di mamme rientrate dal congedo di maternità nel 2022). Dopodiché abbiamo applicato un simile approccio a tutti coloro che devono aiutare un familiare in difficoltà dal punto di vista della salute e, più di recente, abbiamo avviato una Oncology policy. E con grande orgoglio il percorso italiano è divenuto un modello anche per le altre sedi Danone nel mondo.

Uno scatto legato al progetto Più forti insieme, realizzato da Actimel con Auser per portare oltre 6 mila anziani nei centri vaccinali durante la pandemia. In quel caso il testimonial è stato Leonardo Bonucci, allora capitano della nazionale italiana di calcio vincitrice agli Europei

Tutto questo impegno ha portato all’azienda ricadute anche in termini economici?
Sicuramente sì. Sia nel 22 che nel 23 l’azienda è cresciuta con numeri importanti, classificandosi sempre tra le prime aziende dell’area consumi in Italia, sia a fatturato che a volume. D’altra parte, sono kpi importanti anche quelli che riguardano le persone: siamo Great Place to Work e la percentuale di assenteismo è intorno all’1% contro una media nazionale superiore al 7%. È proprio il fatto che la crescita di fatturato e volumi si accompagni a un alto livello di soddisfazione ed engagement delle persone a farci ritenere che il nostro modello sia sostenibile.

La sostenibilità, in particolare quella ambientale, però ha un costo. E alcuni temono che questo possa rallentare l’economia europea, già in difficoltà, rispetto a quelle emergenti…
È innegabile, la sostenibilità ambientale costa. Però, più che di costi, parlerei di investimenti a lungo termine. Ma questi investimenti sono in primo luogo necessari per sostenere la propria filiera produttiva e, se utilizzati nel modo migliore, possono diventare anche un vantaggio competitivo. Il modello del megafono sociale parte da questa convinzione. Se un approccio responsabile, che fa bene alla comunità e all’ambiente, genera extra-vendite, poi gli investimenti vengono ripagati. Per fare un esempio concreto, nel 2022 abbiamo raggiunto un risultato importante: zero prodotti avviati alla discarica grazie a un impegno lungo tutta la filiera. Questo è un investimento che genera anche un vantaggio economico, perché distruggere i prodotti scaduti ha un costo per l’ambiente, ma anche per l’impresa.

In questo contesto che ruolo dovrebbero avere le istituzioni?
Purtroppo l’Italia non è mai stata bravissima a fare sistema, ma nella realtà in cui viviamo credo non si possa prescindere dal lavorare insieme: istituzioni, aziende private e terzo settore. Ognuno fa il suo lavoro, ognuno ha la propria mission, ma collaborare è indispensabile per avere un impatto positivo sulla società. Mi piacerebbe che tutti gli stakeholder la pensassero allo stesso modo, e l’impressione è che ci sia grande sensibilità nell’affrontare queste tematiche.

Cosa potrebbe fare, concretamente, lo Stato?
Per esempio, speriamo che nelle gare pubbliche attribuisca un punteggio superiore ai prodotti venduti da aziende virtuose, valutate attraverso criteri obiettivi come può essere, per dirne uno, la certificazione di parità di genere.

Il Pnrr è davvero un’occasione per sperimentare un nuovo tipo di crescita economica più consapevole?
Parlo per il mondo in cui lavoro, quello della nutrizione: credo che gli investimenti del Pnrr possano effettivamente contribuire a spingere la filiera italiana verso la riduzione delle emissioni e la valorizzazione delle produzioni locali, facilitando anche il percorso delle pmi in questo senso. Io sono ottimista, penso che chi lavora in azienda debba esserlo per natura. Poi è normale, spesso vorremmo che le decisioni istituzionali venissero prese più velocemente, ma dobbiamo anche essere consapevoli dei tempi necessari al percorso legislativo.


Questa intervista è tratta dal numero di Business People di maggio 2024, scarica il numero o abbonati qui

Resta sempre aggiornato con il nuovo canale Whatsapp di Business People
© Riproduzione riservata